Le loro poche parole. Ricordo dei miei nonni

“Off!”. Se penso alla mia nonna Maria risento quella sua esclamazione. Che non era un “uffa!”, né un “uff!”. Era proprio un “off!”. Accompagnato da una leggera alzata di spalle e da uno sguardo a metà tra l’offeso e il sarcastico, era il suo commento preferito. Donna di poche parole, ma dagli occhi eloquenti, la nonna reagiva così quando le dicevamo che, alla sua età e con quelle sue gambe flebitiche, non avrebbe dovuto percorrere a piedi ogni mercoledì due chilometri all’andata e due al ritorno per venirci a trovare. Reagiva allo stesso modo quando si cercava di capire se continuasse a giocare al lotto. E sempre un “off!” arrivava in risposta ai miei tentativi di sapere qualcosa della sua storia, della sua vita da giovane. Come dire: “A chi vuoi che importi? E che cosa c’è poi da ricordare?”.

Era una donna delusa dalla vita? Forse. Io la ricordo piccola e rotondetta, con un vestito scuro, il grembiule bianco e i lunghi capelli grigi raccolti a crocchia. Una babushka dai tratti finissimi e dagli occhi un po’ tristi. Una bambolina che da giovane era stata incantevole e che ora mi stava simpaticissima col suo carattere scontroso.

Mi prendeva per mano e mi portava al pollaio, dove teneva le galline verso le quali nutriva sentimenti di amore e odio. Amore se sfornavano diligentemente le loro uova, odio se non facevano il loro dovere. Lo stesso sentimento che dimostrava nei confronti dell’immancabile canarino nella gabbietta. Se cinguettava, la nonna lo gratificava con un fuggevole sguardo di riconoscenza, ma se restava in silenzio era destinatario di un doppio “off!”, seguito da qualche insulto contro il venditore di canarini, accusato immancabilmente di averla imbrogliata. Nella gabbietta tuttavia non mancavano mai granaglie, acqua, una foglia di lattuga  e, infilate tra le sbarre, lo spicchio di mela e l’osso di seppia. Perché quel canarino, anche se scioperato, era per lei una gran compagnia. Forse l’unica che la nonna gradiva?

Quando abitava all’officina del gas, la nonna aveva anche due cani, che a me sembravano enormi ma erano buoni. Ricordo che uno si chiamava Black. Non erano di razza e mi seguivano, scodinzolanti, ovunque andassi. Nel grande cortile erano accatastati alcuni tubi lunghi lunghi, usati un tempo per convogliare il gas, e là sopra giocavo come se fossi in un castello.

La nonna Maria abitava lì, in una casetta a due piani in via Buon Gesù (adesso sarebbe ancora possibile dare un nome così a una strada?) perché suo marito, il nonno Luigi, era stato il direttore dell’officina del gas quando il gas per l’illuminazione e l’uso domestico veniva prodotto per distillazione del carbon fossile. Il nonno Luigi io non l’ho mai conosciuto, perché morì giovane, lasciando sua moglie Maria vedova con sei figli, tre maschi e tre femmine.

Dell’officina del gas ricordo gli enormi forni e l’altissimo, incombente gasometro. Quando io ero bambino, a metà degli anni sessanta del secolo scorso, gli impianti erano ormai fermi, in attesa di essere smantellati, perché era arrivato il gas metano. E così quell’angolo di mondo, dalle parti dello scalo ferroviario, aveva un fascino particolare. Oggi parleremmo di archeologia industriale, ma allora non si usava: era uno spicchio di vecchia Manchester a due passi da Milano e la nonna Maria, con i due cani, le galline e il canarino, era la silenziosa vestale di quell’universo, fossile come il carbone che un tempo dominava la scena.

Quando il tutto fu smantellato, e al posto dell’officina del gas fu costruito l’ennesimo palazzone, io ero ormai adolescente e la nonna più che ottantenne. Si trasferì al primo piano di un altro palazzone anonimo, e per me fu molto triste vedere la vestale costretta a vivere in un banalissimo appartamentino, due camere e cucina. Niente più galline, niente più cani, niente più tubi del gas accatastati in cortile, niente più mistero. Si salvò solo il canarino. La nonna Maria fu normalizzata, ma da lei non arrivò mai una lamentela. Se le chiedevo qualcosa in proposito, la risposta era il solito “off!”.

Andavo a trovarla in bicicletta. Lei mi invitava a pranzo e, in mio onore, tirava fuori le posate buone. Era una bravissima cuoca ma non, come si sarà intuito, una gran conversatrice. Siccome nemmeno io lo ero, ci facevamo compagnia in silenzio, ma stavamo benissimo così. Di raccontare qualcosa del suo passato, neanche a parlarne. Dopo pranzo, preparava il caffè e ci metteva la scorza di limone. La nonna Maria era veneta, di Treviso, e delle sue parti aveva conservato un dolcissimo accento e un tratto che aveva qualcosa di nobile. Sentirla parlare era bellissimo ma, tra un “off!” e l’altro, non riuscivo a scucirle gran che. Si intuiva comunque che per lei il passaggio da Treviso all’hinterland milanese, al seguito del nonno Luigi, doveva essere stato piuttosto traumatico.

Era credente, la nonna Maria? Penso di sì. Ma, quando si parlava di preti e di Chiesa, immancabile arrivava un “off!”, seguito da una dichiarazione perentoria: “È tutta una bottega!”. Decisamente anticlericale, aveva però un debole per il papa Giovanni XXIII. Diceva: “Lui sì che è un bravo papa”. Quando Roncalli morì, nel 1963, la nonna Maria ci soffrì davvero. E quando poi morì anche il presidente John Kennedy, l’altro suo eroe, prese la copertina della Domenica del Corriere disegnata da Walter Molino, dove Giovanni e John sono ritratti per mano, di spalle, come due seminatori di pace che se ne vanno lungo un campo, la fece incorniciare e l’appese in cucina, vicino al vecchio macinino per il caffè, altro reperto proveniente dalla casetta di via Buon Gesù.

Fino all’ultimo la nonna Maria venne a trovarci ogni mercoledì, puntualissima. Trascorreva con noi la giornata, guardava un po’ di televisione: parlava poco ma si capiva che le piaceva. Quando le gambe divennero davvero troppo gonfie, fu chiaro che non avrebbe più potuto vivere da sola. Si stabilì da noi e un brutto giorno toccò a me scoprirla stesa a terra. Ricoverata all’ospedale, non ci mise molto a volare in cielo. In uno degli ultimi giorni mi chiese un bicchiere d’acqua. Andai in bagno, feci scendere l’acqua a lungo e glielo portai. “Grazie – mi disse – è bella fresca”, e sorrise. Quella volta non ci fu un “off!”, e per me fu un gran regalo.

L’altra nonna si chiamava Angioletta e viveva da noi, al piano di sotto. Dai tratti somatici un po’ spigolosi, come il suo carattere, la ricordo sempre affaccendata in lavori umili. E dire che era stata una ragazza di mondo. Classe 1887, a due anni si era trasferita con la famiglia da Milano in Argentina, a Buenos Aires, e lì aveva frequentato le scuole, il conservatorio musical Clementi e l’istituto musical Giuseppe Verdi. Diplomatasi maestra di piano e professoressa di solfeggio e teoria musicale, studiò canto e divenne un apprezzato soprano lirico. Cantò diretta da Toscanini e Mascagni, andò a concerti, frequentò teatri, vide esibirsi Eleonora Duse. A ventitré anni fece un viaggio in Italia, ci restò otto mesi, ne rimase folgorata e convinse papà e mamma a rientrare in patria. Si stabilirono a Milano, vicino all’Arco della pace, una gran bella zona. Scoppiò la prima guerra mondiale e la giovane Angioletta divenne una madrina di guerra, con il compito di scrivere ai soldati al fronte per rassicurarli e tenerli su di morale. Tra i soldati ce n’era uno che si chiamava Giovanni. Era parente dei genitori di Angioletta ed era nato a Tandil, nella regione di Buenos Aires, perché anche lui era figlio di emigrati in Argentina poi tornati in Italia. Giovanni e Angioletta si sposarono a guerra finita. Lui aveva ventinove anni, lei tre di più.

Ma perché la nonna Angioletta non parlava di quel suo passato così interessante? Oppure ne parlava ma io non ero in grado di coglierne l’importanza? E perché non cantava più? Oppure lo faceva per conto suo? Certamente era timida, anche un po’ ombrosa. Si offendeva facilmente, si innervosiva per un  nonnulla, e allora le scappava qualche parolaccia sibilata in castigliano. Dei tempi andati, in casa sua, c’erano pochi ricordi: il pianoforte, al quale tuttavia non si accostava mai; alcune bombillas, le zucche a fiasco per contenere il mate; la corazza di un armadillo trasformata in un cestino per le caramelle; un grande termometro da parete montato su una tavola di legno con la pubblicità di una medicina “contra las enfermedad del estómaco”.

Quando scendevo da lei mi offriva il tè, rigorosamente con latte, all’inglese, e biscotti. Ma non se ne stava lì a chiacchierare. Anche in quei momenti continuava a trafficare, a muoversi.

Il nonno Giovanni era tutto il contrario: lo ricordo calmo, riflessivo, dai movimenti lenti e ponderati. Aveva un’affezionatissima cagnetta, la barboncina Titti, tutta nera, e quando la portava fuori a me piaceva seguirli. Le grandi scarpe del nonno scricchiolavano e quel rumore dava sicurezza. Sempre impeccabile in abito scuro, camicia bianca e cappello, aveva i baffoni bianchi e occhi azzurri buonissimi. Possedeva anche un’imponente bicicletta nera, marca Umberto Dei, con un grande faro rotondo, i freni a bacchetta e il parafango posteriore dipinto di bianco, secondo le norme previste per l’oscuramento in tempo di guerra.

Il nonno Giovanni era stato impiegato amministrativo in un cotonificio, ma i suoi genitori avevano un albergo e lui era diventato un bravo cuoco. Cosa molto importante: sapeva fare un’ottima zuppa inglese. Quando l’Angioletta si innervosiva troppo, le raccomandava: “Calma, Angiuleta!”.  Morì nel 1966. Lui aveva settantasei anni, io otto. Peccato, mi sarebbe piaciuto stare di più in compagnia di quell’uomo di poche parole che parlava con gli occhi. In quella calda estate in cui un tumore se lo portò via, chiamò me e mia sorella accanto al letto. Stavamo partendo per il mare e lui disse: “Quando tornerete, non ci sarò più”. Restammo sbigottiti e avremmo voluto chiedere ai nostri genitori di lasciarci lì: il nonno Giovanni stava morendo, come potevamo andare al mare? Ci fecero comunque partire e capimmo che a volte gli adulti ragionano in modo strano.

Rimasta sola, la nonna Angioletta si fece ancora più spigolosa, ma con me fu sempre tenera. Mi piaceva giocare nella sua cucina, sulle piastrelle bianche e nere. Fu proprio lì che, un giorno, dopo che dal mio modellino di camion si rovescarono a terra i legnetti che trasportava, pensai per la prima volta alla morte. Guardai la nonna, che come al solito trafficava attorno a qualcosa, poi il gatto Fuffi, che si mimetizzava con le piastrelle e fingeva indifferenza. Il mondo per un attimo mi sembrò insensato. Poi ripresi a giocare.

Quando la nonna Angioletta incominciò ad aver bisogno di cure assidue, i miei genitori decisero che sarebbe stato meglio per lei andare in una residenza per anziani, altrimenti detta ricovero per vecchi. E lì l’Angioletta si perse. A me piangeva il cuore vederla lontana dalla sua casa, dalla sua cucina, dal pianoforte, dalle bombillas, dall’armadillo trasformato in cestino. Non poteva più offrirmi il tè con latte e biscotti. Non sibiliva nemmeno più le sue parolacce in castigliano. Chissà se si rivedeva ai concerti con Toscanini e Mascagni, chissà se sentiva gli applausi del pubblico. Sempre più magra, sempre più spigolosa, se ne andò senza dare troppo disturbo e raggiunse il suo mite e paziente Giovanni.

Per curiosità, di passaggio da Milano, sono andato a vedere la casa in cui abitavano l’Angioletta e il Giovanni, a due passi dal Parco Sempione. Adesso è diventata zona di movida notturna, piena di locali modaioli.

 

Aldo Maria Valli, Il Foglio

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