Quei tempi duri nella Brescia del primo Ottocento

Per chi si occupa di libri, quei tempi sono, a dir poco, problematici.

E, sotto molti aspetti, ricordano i tempi nostri. Il rappresentante

Araldi, che gira l’Italia per conto dell’istituto, riferisce che «il

tempo di far degli affari vistosi è passato» e «i librai si lamentano

che non hanno denaro». A Firenze «la maggior parte sono falliti»,

a Genova «sono mezzo spiantati». Foligno, che una volta era «una

discreta piazza, adesso non val più niente, a motivo del terremoto

che rovinò affatto quel paese».

Non c’è da stare allegri. E meno male che nell’estate del 1833

arriva, almeno, un importante incoraggiamento. È quello del papa

in persona, Gregorio XVI. Passando da Roma, il buon Araldi

partecipa a un’udienza e consegna al pontefice il regolamento

dell’istituto. Al che il papa, leggendo sul frontespizio «Pio Istituto

eretto in Brescia dal Canonico Pavoni a ricovero ed educazione dei

figli poveri e abbandonati», esclama per due volte: «È cosa buona!

È cosa buona!».

Se il commercio dei libri fatica, le cose vanno un po’ meglio per

cartolai, cesellatori, tornitori, falegnami. I laboratori di San Barnaba

sono dieci e lavorano senza sosta. Ai ragazzi di Pavoni è stata

ordinata la costruzione di alcuni scranni di noce per il coro del

convento francescano di Rezzato. Le fatture arrivate fino ai giorni

nostri dimostrano la precisione e la scrupolosità del direttore nella

realizzazione del lavoro.

Se i tempi sono difficili per l’opera del canonico Pavoni, non lo

sono certamente di meno per la diocesi di Brescia e, in generale,

per la Chiesa cattolica. Dopo la morte di monsignor Nava, passano

quasi tre anni prima che la città possa avere un nuovo vescovo.

Mentre l’ostilità al dominio austriaco si diffonde nell’intero Regno

Lombardo Veneto e crescono le adesioni di patrioti alla Carboneria

e ad altre associazioni segrete, il regime, che pretende di avere l’ultima

parola anche nella scelta dei vescovi, si dimostra incerto nel

prendere una decisione circa il successore di Nava perché di ogni

candidato vuole vagliare a lungo e con circospezione non solo le

capacità, ma anche le eventuali simpatie politiche e le attitudini

in campo sociale.

Alla fine la scelta, di compromesso, cade su Carlo Domenico

Ferrari, ex padre domenicano, di famiglia originaria della Valcamonica,

docente di dogmatica al seminario. Sessantacinque anni,

divenuto sacerdote diocesano dopo la soppressione del suo convento,

è un uomo dal carattere mite, lontano dalle tensioni politiche.

Anche liberali e anticlericali restano delusi. Avrebbero preferito

probabilmente il canonico Corsetti o il canonico Pinzoni, ritenuti

più inclini alla fronda nei confronti degli austriaci. È il primo

vescovo bresciano non nobile e non a caso, al rinfresco offerto

nel giorno dell’insediamento, a base di «limonata e cioccolata», la

nobiltà bresciana è assente.

Pavoni invece è soddisfatto. Conosce bene monsignor Ferrari,

che è stato suo insegnante, e lo accoglie con fiducia e ossequio,

anche mettendo i suoi ragazzi a disposizione per il coro. Inoltre

tira un sospiro di sollievo. Infatti, subito dopo la morte di Nava,

come auspicabile nuovo vescovo di Brescia era circolato proprio

il suo nome, tanto che il celebre incisore Zapparelli aveva scritto

in questo senso una lettera all’imperatore in persona (e lo stesso

avverrà qualche anno più tardi, quando correrà voce sulla candidatura

del Pavoni a vescovo di Cremona).

In quell’epoca le intrusioni del governo austriaco negli affari

della Chiesa sono continue. Avvertendo che nell’edificio politico

messo in piedi in Lombardia e nel Veneto si stanno aprendo crepe

sempre più vistose, e temendo che le autorità ecclesiali possano

prestarsi a fare da sponda ai contestatori, Vienna pretende di assoggettarle

ancora di più al proprio potere.

Anche Pavoni fa esperienza di questi problemi quando, all’improvviso

e senza motivo evidente, una funzione religiosa prevista

in San Barnaba (in onore di santa Filomena, giovane cristiana

martire per la fede, della quale papa Gregorio XVI è molto devoto

e la cui statua è arrivata a Brescia appositamente da Roma) viene

impedita dal delegato dell’Imperial Regio Governo. Perché? Secondo

alcuni, con la sospensione della celebrazione si vuole colpire

proprio Pavoni, che di San Barnaba è rettore e che, per i gusti dei

governanti, è un po’ troppo attivo in campo sociale. In realtà, non

è la messa in sé che preoccupa, ma la predicazione in occasione

delle sacre funzioni e il numeroso afflusso di popolo. Ma il nuovo

vescovo, nella circostanza, si dimostra fermo. Giudicando la

proibizione una «illegale inframmettenza del potere civile in un campo

squisitamente ecclesiastico», ordina che si proceda.

Pavoni è devoto ai santi e li cita volentieri come esempio per

i cristiani suoi contemporanei. Di Filomena, in particolare, apprezza

la testimonianza coraggiosa. La vicenda leggendaria di

questa santa (che commuoverà il santo curato d’Ars) è esemplare.

Giovane principessa, arriva a Roma appena tredicenne con i genitori.

L’imperatore Diocleziano la vede e si invaghisce di lei, ma

Filomena, che ha consacrato la vita a Cristo, rifiuta ogni offerta e

per questo viene sottoposta a torture. Sopravvissuta miracolosamente

ai tormenti, viene infine decapitata. In San Barnaba Pavoni

le dedica un altare e fa adornare di fiori la statua giunta da Roma.

Trova che le virtù della giovane martire siano edificanti e rappresentino

un insegnamento per il «miglioramento dei costumi

della crescente gioventù». I giovani: va sempre a loro il pensiero

del canonico. È possibile invece che gli austriaci vedano nella

vicenda di Filomena un esempio di indomita resistenza cristiana

agli abusi del potere politico e per questo si siano comportati con

tanta durezza. Fatto sta che, grazie al vescovo Ferrari, la celebrazione

si tiene regolarmente e l’abate Isaia Rossi di Salò, incaricato

da Pavoni di tessere le lodi della santa, può pronunciare la sua

omelia, seguita da decine e decine di giovani. Poi i pueri cantores

innalzano i loro canti, mentre la santa, vestita di seta rossa e con

il capo cinto da una corona di rose, sembra dormire nella teca di

cristallo in cui è stata posta.

Mentre l’Austria fa i conti con inequivocabili segnali di decomposizione

del suo impero e la polizia asburgica, come reazione,

diventa ancora più inflessibile nell’indagare e più dura nella repressione,

nel 1836 l’intera zona del Bresciano è colpita da due flagelli:

una prolungata siccità e un’epidemia di colera.

La città è sconvolta. I morti sono centinaia e intere famiglie

vengono spazzate via. Cresce in modo impressionante il numero

degli orfani e Pavoni apre le porte del suo istituto anche a questi

ragazzi sfortunati. In pochi giorni il numero degli ospiti raddoppia

ed è il canonico stesso ad accoglierli come figli. Li abbraccia,

li conforta, li cura.

Per il bilancio dell’istituto, già in gravi difficoltà, è una mazzata.

Dove trovare i fondi per sostenere queste nuove spese? Pavoni

prega e invoca la Provvidenza divina, e intanto mette in atto

una nuova iniziativa. In una lettera inviata a tutti «i suoi amati

bresciani», spiega in concreto qual è il progetto: «Lo scrivente

vostro cittadino, che è commosso da tante necessità ed ha dato

conveniente asilo a tutti i bisognosi, per sostenere il sopraccarico

del dispendioso mantenimento che eccede le sue forze, ha ideato

di creare un’associazione, a speciale beneficio dei poveri orfani del

colera, che gli permetta di stendere le paterne sue braccia agli orfani

da aggiungere ai tanti, figli della stessa calamità, già raccolti».

Come funziona questa associazione? In pratica ogni sottoscrittore

si impegna a versare «lire due» per tre anni consecutivi, fino al

1839, ricevendo in cambio libri «non inferiori alle duecento pagine»

stampati dagli alunni della scuola tipografica. In questo modo l’istituto

avrà disponibilità immediata di denaro e gli associati saranno

consapevoli di partecipare a un importante progetto di solidarietà.

Ovviamente chi vuole offrire più di due lire è liberissimo di farlo,

ma l’importante per Pavoni è che i fondi affluiscano subito, perché

le necessità dei ragazzi sono immediate. Il direttore inoltre si rivolge

all’amico Francesco Gambara perché si faccia promotore dell’iniziativa

e invia a ciascun socio una lettera per tenerlo aggiornato. La

sua idea è infatti quella di offrire il prodotto giusto alla persona giusta,

a seconda dei gusti e delle propensioni del lettore. Se ad alcuni,

per esempio, propone un’opera edificante come Le gesta mirabili e le

cristiane virtù dell’ottima giovane Bartolomea Capitanio di Lovere,

scritto dall’abate Gaetano Scandella, ad altri consiglia invece un volume

di cento pagine «tutto di musica, arte, duetti, cori e canto con

accompagnamento di pianoforte». Oggi si parlerebbe di marketing

mirato in base al profilo del potenziale cliente.

L’epidemia di colera passa, ma le necessità dell’istituto continuano

ad aumentare. Nonostante gli sforzi, nonostante le mille

idee, nonostante il generale apprezzamento per il lavoro svolto

dai giovani (non solo i tipografi, ma anche i falegnami hanno

numerose commesse), i conti non quadrano e Pavoni è costretto a

chiedere ancora prestiti. Come se non bastasse, l’architetto comunale

decide di togliere spazio ai locali della Pia Casa, in base a un

progetto di ristrutturazione davanti al quale il canonico decide di

scrivere subito una lettera di protesta. Proprio mentre le esigenze

dell’istituto crescono, ecco che «mi si restringe il più salubre e

miglior dormitorio; mi si scompone la simmetria del fabbricato

con disordinata promiscuità di confini; si deturpa l’ingresso con

una latrina» e, ulteriore oltraggio, una parte dei locali è concessa

a un falegname «che ha ingresso e bottega sulla piazzetta di san

Barnaba, per cui chi non ha pratica affida per sbaglio a lui le commissioni

che avrebbe dovuto dare alla Pia Casa». Pavoni conclude

sconsolato: «Mi ero illuso di sperare patrocinio da un magistrato

la cui parola d’onore ritenni di aver forza di legale istrumento!».

Sono anni che questo prete, questo educatore, questo imprenditore

della solidarietà lotta per avere locali e spazi, per la dignità

dei suoi giovani. Sono anni che si industria per trovare soluzione

a problemi apparentemente insormontabili. È un uomo di fede,

e finora non si è mai lasciato prendere dallo sconforto. Ora però

l’amarezza affiora. Possibile che chi vuole operare il bene debba

continuamente combattere e che gli vengano messi sempre i bastoni

fra le ruote?

 

Aldo Maria Valli

 

da L’inventiva dell’amore. San Lodovico Pavoni,  Àncora Libri, Milano 2016

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