Libertà di mercato e dottrina sociale della Chiesa. Una lettura controcorrente

Caro lettore, se ti piace crogiolarti nei luoghi comuni del politically correct, se ami i rassicuranti dogmi dello statalismo, se pensi che l’assistenzialismo pubblico sia la soluzione ai problemi della diseguaglianza e che la carità vada fatta con i fondi pubblici, questo libro non è per te. Se invece ami ragionare con la tua testa, se hai a cuore la libertà, se pensi che nell’iniziativa privata e non nella mano pubblica risiedano le risorse di una società sana e che la solidarietà non si possa praticare con i soldi degli altri, allora ti consiglio di leggere e fare tesoro di quanto troverai. Le pagine che seguono ti regaleranno soddisfazione intellettuale e ti metteranno a disposizione un ottimo corredo di idee da contrapporre alla superficialità dilagante.

Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato è controcorrente fin dal titolo. Diciamo la verità: oggigiorno, mentre populismi e demagogie di diverso segno e colore dilagano ovunque, senza risparmiare la Chiesa,  non è facile trovare qualcuno disposto ad accoppiare l’economia di mercato con quell’apparato di insegnamenti che va sotto il nome di Dottrina sociale della Chiesa. La sola idea fa storcere il naso ai paladini dell’equità garantita, a modo suo, dal Leviatano. I nove autori del libro, invece, non hanno paura di essere anticonformisti. Anzi, fanno della loro indipendenza una bandiera e la porgono idealmente a tutti quelli che, stanchi di parole d’ordine e conseguenti pregiudizi, vogliono verificare i dati e formulare opinioni in base non all’ideologia ma al principio di realtà.

Che siano laici o consacrati, gli autori hanno a cuore allo stesso modo l’uomo, la sua libertà e la Chiesa cattolica, questa “maestra di umanità”, secondo la definizione di Paolo VI, che troppo spesso però fornisce di sé una testimonianza per lo meno contraddittoria, a causa di interpreti che trascurano o ignorano, in entrambi i casi colpevolmente, i fondamenti del magistero.

Tra i patrimoni meno conosciuti, e quindi più malintesi, c’è proprio la Dottrina sociale della Chiesa, che prende avvio con la Rerum novarum di Leone XII (1891), risposta cattolica alla questione operaia, e arriva fino a noi attraverso altri storici documenti  come la Quadragesimo anno di Pio XI (1931), la Mater et magistra (1961)  e la Pacem in terris (1963)di Giovanni XIII, la Gaudium et spes e la Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II,  la Populorum progressio (1967) e la Octogesima adveniens (1971) di Paolo VI, la Laborem excersens (1981), la Sollecitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II, la Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI. Occorre dunque che di tanto in tanto qualcuno ricordi come stanno le cose, e i nove autori del libro, studiosi non paludati, lo fanno unendo la competenza alla capacità divulgativa.

Al di là di sottolineature legate ai singoli momenti storici, le encicliche sociali dei papi, così come le costituzioni e le dichiarazioni del Concilio Vaticano II, ribadiscono costantemente alcuni punti fermi: il rispetto della libertà di mercato e della proprietà privata garantisce il sistema più favorevole alla tutela della dignità umana e alla promozione integrale della persona; lo statalismo sfocia in forme di coercizione che non rendono possibili diritti fondamentali come quello all’educazione; posto che l’obiettivo del governo è il bene comune, lo Stato non si occupi di ciò che compete alle persone e alle comunità, ma garantisca la cornice normativa in grado di assicurare l’effettivo esercizio di diritti e libertà; le leggi non pretendano di sostituirsi alla coscienza imponendo una morale per via giudiziaria; la Chiesa non chieda privilegi ma non rinunci a interpellare, alla luce del Vangelo, uomini e donne di buona volontà.

Si tratta di capisaldi che i nove autori del libro ricordano e illustrano. Ma di certo non si limitano a questo. Di particolare spessore è il contributo di don Robert A. Sirico, sacerdote americano fondatore dell’Acton Institute for the Study of Religion and Liberty, che nel capitolo Ripensare il welfare, far rivivere la carità: un’alternativa cattolica, ribalta coraggiosamente i luoghi comuni statalisti e dimostra come il miglior aiuto per i poveri può venire non dall’intervento pubblico, ma dal mercato. È il mercato che crea ricchezza ed è la ricchezza a determinare la possibilità di aiutare chi ha bisogno. Non è vero, come sostengono molti, che l’unica via per garantire l’assistenza sociale consista in un complesso apparato statale. Semmai è vero il contrario: quando si occupa dei poveri, lo Stato, per sua natura, è spesso impreciso e ingiusto, quindi tutt’altro che caritatevole, e tende non tanto ad assicurare gli aiuti nel modo più equo ed efficace, quanto ad accrescere e perpetuare la propria burocrazia, che diventa il vero fine dell’intero meccanismo. Lo Stato, scrive Sirico, non è amico dei poveri. I veri amici sono gli individui, i gruppi e gli organismi che, su base volontaria e con obiettivi ben determinati, utilizzano parte della ricchezza perché sia redistribuita e favorisca il riscatto di chi è rimasto più indietro. Lo Stato tende a combattere la diseguaglianza rendendo tutti più poveri e a scaricare sulla sfera pubblica i costi sociali. Di qui le contraddizioni di un welfare cronicamente sfiatato e inefficiente. Occorre dirlo, e Sirico lo dice: “Storicamente, le società più caritatevoli nel mondo sono state le più ricche e le società più ricche sono state anche le più libere. Quando le persone hanno maggiore reddito a disposizione possono investire di più in azioni caritatevoli”. Cosa che non avviene quando lo Stato, adducendo motivi di solidarietà sociale, applica livelli di tassazione astronomici, rendendo più difficile per i privati destinare risorse alla carità.

Non ci può essere autentica solidarietà senza il principio di sussidiarietà. Se un ente inferiore (individui, Chiesa, famiglia, associazioni) è in grado di svolgere con profitto un compito di assistenza, non c’è motivo per cui un ente superiore statale glielo debba impedire. Il compito dell’ente superiore è piuttosto quello di favorire la libertà di iniziativa sociale dei privati che, con la loro azione, svolgono a tutti gli effetti un servizio pubblico.

Noi spesso diciamo “pubblico” e pensiamo all’erogatore del servizio, non al destinatario. In realtà è “pubblico” non tutto ciò che nasce dallo Stato, ma tutto ciò che va a beneficio della società nel suo complesso. Ecco perché è sbagliato parlare di scuole “private” contrapponendole alle “pubbliche”, mentre si dovrebbe parlare di scuole di iniziativa non statale che svolgono, esattamente come quelle di iniziativa statale, un servizio pubblico.

Un’altra questione nodale affrontata nel libro è quella di cui si occupa Philip Booth nel capitolo Aiuti, governance e sviluppo: che cosa significa, davvero, per un Paese donatore, essere solidale con un Paese bisognoso? Fornire aiuti è sempre e comunque positivo? Non è forse vero che spesso l’assistenza di uno Stato nei confronti di un altro serve solo a centralizzare il potere e le risorse dello Stato ricevitore e non raggiunge chi davvero ne ha bisogno? In questo ambito ascoltiamo di frequente dure requisitorie contro la globalizzazione, come se questa fosse la causa di ogni male, ma qui, rileva Booth, siamo alle prese con analisi quanto meno superficiali. La povertà non è causata dalla globalizzazione, ma dall’incapacità o dalla non volontà di prendere parte alla globalizzazione sfruttandone i benefìci. La verità è che la povertà, durante il processo di globalizzazione, è diminuita in termini sia assoluti sia relativi, riducendo il divario tra Paesi. Lo dimostra il caso della Cina, dove almeno trecento milioni d persone sono state riscattate da un’estrema povertà, e discorsi analoghi si possono fare per India, Sri Lanka, Cile, Pakistan. Il mercato ha reso possibile raggiungere traguardi che gli aiuti governativi non solo non rendono possibili, ma a volte allontanano, perché sono aiuti a governi ingiusti. Benedetto XVI nella Caritas in veritate ha molte buone ragioni per dimostrarsi critico verso le agenzie che forniscono aiuti e il modo in cui i governi li utilizzano, perché sia nella catena dei donatori sia in quella dei fruitori si annidano irresponsabilità. La realtà ci mostra che l’aiuto vero è quello allo sviluppo, che avviene non finanziando i governi ma coinvolgendo i soggetti dal basso, il che porta Booth a chiedere che la dottrina sociale cattolica, in questo campo, sia temperata dal realismo e non utilizzata come alibi per giustificare gli aiuti ai governi. Come scrive Thomas E. Woods jr. nel capitolo dedicato al giusto salario, la dottrina sociale cattolica è chiamata a fare i conti con il giudizio informato e la coscienza individuale. Non significa estromettere la morale dall’economia: significa, semplicemente, rendersi conto di come funziona l’economia.

Sullo sfondo c’è un altro tema che non può essere ignorato. Spesso, anche nella Chiesa, si dice “mercato” e si intende “consumismo”, dando per scontato che la libertà di mercato, considerata la sua capacità di produrre beni e di metterli a disposizione dei consumatori, sia tutt’uno con il consumismo e il materialismo. Ma è davvero così? E qual è in merito la posizione della Dottrina sociale della Chiesa? Andrew Yuengert (Liberi mercati e cultura del consumo) fa capire molto bene che quella della Chiesa, specie a opera del pensiero di Giovanni Paolo II, è una posizione mediana fra due estremi: per la Dottrina sociale non è vero, come sostiene la scuola libertaria, che ogni problema di consumismo è solo un problema di cultura e che il mercato, in quanto tale, non ha responsabilità, ma non è neppure vero, come sostiene la sinistra anti-mercato, che i mercati siano la causa diretta del consumismo. La libertà di mercato, sostiene Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, pubblicata nel 1991, cioè dopo l’implosione del sistema sovietico, resta il miglior sistema per produrre e scambiare i beni necessari all’uomo, ma nel momento stesso in cui offre questa possibilità espone al rischio del consumismo: “Non è male desiderare di vivere meglio, ma è sbagliato lo stile di vita,  che si presume esser migliore, quando è orientato all’avere e non all’essere”. La questione, dice papa Wojtyła, va allora affrontata in termini educativi e culturali, orientando i consumatori verso un uso responsabile del loro potere di scelta e i produttori (ma anche i mass media: pensiamo alla pubblicità) verso il senso di responsabilità. Ma a chi tocca questo compito educativo? Giovanni Paolo II non esita a parlare di “pubbliche autorità” e a sostenere che è compito dello Stato anche provvedere alla tutela dei beni collettivi, come l’ambiente naturale, la cui salvaguardia non può essere affidata ai meccanismi del mercato. È una posizione che suscita immediato sospetto nel liberale, ma secondo Yuengert l’attuale iper-regolamentazione statale della società non deve per forza condurci a rinunciare a un ruolo dello Stato nell’aiutare le persone a mantenere il mercato “in una prospettiva umana”. La cosa importante è che “lo Stato non si ponga al comando della cultura o tenti di sostituirla”. Possibile? La discussione è aperta e le sensibilità sono diverse anche fra gli stessi autori del libro. Assodato che, sotto il profilo educativo, per la Chiesa il ruolo più importante resta quello della famiglia (“luogo primario della umanizzazione della persona”, come si legge nel Compendio della Dottrina sociale della Chiesa), Anthony Percy  ritiene fuori dubbio “che la Chiesa, in ultima analisi, abbia un pregiudizio contro il consumismo” e comunque è chiaro che l’interdipendenza dei fenomeni impedisce ogni risposta monodirezionale.

Un’osservazione critica da muovere al libro può essere quella di dedicare poca attenzione alle condizioni dei lavoratori rispetto al numero di pagine sulla libertà di impresa e la nobiltà del compito degli imprenditori. Per esempio, occupandoci della Cina, dell’India e degli altri paesi che ultimamente hanno conosciuto tassi di crescita straordinari, bisognerebbe interrogarsi sulle forme di sfruttamento del lavoro che stanno dietro certe performance. Quando nel libro si parla delle responsabilità morali degli imprenditori la condanna dello sfruttamento è comunque implicita.

Uscito in inglese nel 2007, il libro non si occupa dell’insegnamento in campo sociale ed economico di papa Francesco, ma basta leggere l’Evangelii gaudium, e la Laudato si’ per misurare la distanza esistente fra le posizioni degli autori della presente opera e quelle di Bergoglio su questioni centrali come libertà di mercato, profitto, globalizzazione, sviluppo e inclusione sociale. Robert Sirico, in diverse circostanze, ha parlato di “forte pregiudizio” di Francesco nei confronti del libero mercato. Francesco non è un pensatore sistematico e spesso  i suoi documenti (si veda il caso di Amoris laetitia) sono talmente ambivalenti da legittimare conclusioni opposte. Un motivo in più per esortare gli autori di queste pagine a scendere in campo di nuovo.

Aldo Maria Valli

Presentazione di  AA.VV., Dottrina sociale cattolica ed economia di mercato, Liberilibri, 2016

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