E lo sposo andò a canestro

Dopo il vescovo in bicicletta nella cattedrale (Palermo) e il ballerino davanti all’altare (Münster), ecco il prete che chiede allo sposo di fare canestro durante la celebrazione del matrimonio. È successo in provincia di Treviso, dove il geniale celebrante, rivolto allo sposo appassionato di basket, ha detto: «Se fai canestro, il matrimonio andrà bene». Dopo di che il prete ha consegnato un regolare pallone da basket al giovanotto e costui, superato un comprensibile attimo di apprensione, ha lanciato e fatto centro: canestro!
Devo dire che il signor marito è stato bravissimo. Non solo perché era infagottato nell’abito da cerimonia, ma perché il canestro, piazzato al centro della navata, non aveva tabellone (quindi non c’era possibilità di contrare su un piccolo aiuto) ed era anche posto a un’altezza inferiore a quella del lanciatore. Insomma, condizioni di estrema difficoltà. Eppure il tiro è stato perfetto.
Non sappiamo se il prete abbia considerato il tiro come libero (nel qual caso vale un punto), entro i 6,75 metri (due punti) oppure oltre i 6,75 metri (tre punti). A occhio, direi che era da tre. Ciò che più conta, in ogni caso, è quella concezione metafisica (ma anche vagamente superstiziosa) del tiro: se segnerai, il matrimonio andrà bene.
Occorre fare i complimenti al signor prete per una visione teologico-pastorale tanto acuta e avanzata. La parabola della vita accostata a quella del pallone denota capacità di lettura dei segni dei tempi, per una Chiesa veramente in uscita.
Ma la vicenda nasconde un retroscena. «In realtà – ha rivelato il celebrante – lo sposo cestista non avrebbe dovuto fare canestro. I testimoni sarebbero dovuti intervenire per aiutarlo. Questo perché, a volte, nel matrimonio possono accadere degli imprevisti e per farlo funzionare è necessario farsi aiutare da chi ci vuole bene».
Capito? Tutto era stato predisposto con grande acume. Quindi lo sposo, centrando il canestro, in realtà ha sbagliato, perché era previsto che sbagliasse, non che segnasse. D’altra parte sembra giusto che in una Chiesa doverosamente in uscita il tiro debba uscire a sua volta. Ma le vie del Signore, anche sotto forma di tiro, sono infinite. L’uomo propone e Dio dispone. Lui scrive dritto anche sui tiri storti. Che siano da uno, da due o da tre punti.
Quanto all’aspetto liturgico, non è facile catalogare quanto avvenuto in quella chiesa di periferia. Possiamo considerare il tiro a canestro un’azione liturgica? E, se sì, di quale tipo? Catabatica o anabatica? Ovvero: in quel momento è Dio che discende fra noi o siamo noi che ascendiamo verso Dio?
Qui la questione si fa complessa e la lasciamo volentieri agli specialisti. Notiamo tuttavia che nella traiettoria del tiro, prima verso l’alto e poi in discesa, non è difficile scorgere una metafora che forse può insegnarci qualcosa.
Ma prendiamo in considerazione proprio la parola in sé: «tiro». Non vi sarà sfuggito che è l’anagramma di «rito». Di qui la domanda: nel caso specifico è stato il tiro che si è trasformato in rito o il rito che ha assunto la forma di tiro?
E ora pensiamo a quel giovane marito e alla sua attività di cestista. Che cosa passerà nella sua mente e nel suo cuore ogni volta che si troverà davanti al canestro? Percepirà tutta la carica metafisica del suo gesto? E tale consapevolezza non agirà forse su di lui in modo tale da paralizzarlo?
Di nuovo, è bene che siano gli specialisti a pronunciarsi. Noi ci limitiamo a porre una domanda: ma la sposa, in tutto questo, che ruolo ha avuto? E, soprattutto, dov’era? Dalle immagini non si riesce a capire. Si vede il celebrante e si vede il marito cestista. Si vedono alcuni fedeli seduti. Ma niente sposa. Aveva forse chiesto un minuto di sospensione, tanto per raccogliere le idee e capire un po’ meglio? O era forse già fuggita in preda a una crisi di sconforto? Ah, saperlo!

Aldo Maria Valli

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