Lettera a don Filippo. Un bravo prete

 

Tempo fa un caro amico, Sandro, mi ha chiesto di scrivere una lettera per don Filippo, il prete che fu responsabile dell’oratorio San Carlo di Rho quando io ero bambino (si parla dunque degli anni Sessanta del secolo scorso!). Don Filippo è andato in pensione (come si suol dire con termine burocratico che,  dire il vero, non mi sembra adeguato a un prete, perché una vocazione di certo non va in pensione). Di qui l’idea di Sandro: chiamare a raccolta un po’ di amici di don Filippo e chiedere a ciascuno di loro una lettera. Ecco qui, dunque, la mia.

Mi piacerebbe che, attraverso la gratitudine per don Filippo, arrivasse a ognuno una parola di speranza e , in particolare, di fiducia nella santità della nostra Madre Chiesa.

***

Caro don Filippo, certamente ricorderà le famose parole di Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». È un celebre passaggio della Evangelii nuntiandi, l’esortazione apostolica del 1975. Parole che riprendono un pensiero espresso dal Papa durante l’udienza al Pontificio consiglio per i laici del 2 ottobre 1974.

Non so se succede anche lei, ma io ripenso spesso a Papa Montini, che guidò la Chiesa nel mare tempestoso degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, cioè quelli in cui il sottoscritto ha vissuto la propria infanzia, adolescenza e giovinezza. C’è chi sostiene che Paolo VI fece molti errori, ma io sento di essergli grato, e in particolare mi riconosco nella citazione appena riportata.

Il problema è che trovare autentici testimoni è difficile. Il testimone non si limita a predicare, ma vive ciò che predica. Anzi, più che predicare, vive. Più che parlare, fa. E proprio così, con il suo esempio, insegna.

Ecco, caro don Filippo, lei per me è stato, ed è, un testimone. Lo è stato soprattutto quando io ero bambino, un bambino che frequentava l’oratorio San Carlo di Rho, e lei sa meglio di me quanto è importante per un bambino incontrare un vero testimone.

Se oggi, a quasi sessant’anni, mi considero un figlio della Chiesa, e in particolare della Chiesa ambrosiana, se oggi avverto con assoluta certezza la carezza di nostro Signore sul mio volto; se oggi, dopo più di trent’anni, vivo con Serena, la ragazza sposata nel 1984, se oggi Serena ed io abbiamo sei figli e due nipoti; se oggi continuo a vedere davvero nella nostra santa madre Chiesa una mamma amorevole, che cura con la medicina della misericordia senza però rinunciare a mostrare la il volto della Verità e la via della Giustizia, ecco,  posso dire che alla radice di questo albero c’è anche don Filippo. Ed è una radice così profonda e così vera che, nonostante gli anni passati e le tante vicende della vita, continua a trasmettere linfa vitale all’anima, al cuore e alla mente.

Quando lei, don Filippo, era il responsabile dell’oratorio San Carlo di Rho, per rapportarsi  con noi bambini e ragazzi, non applicava complicate ricette imparate su testi di psicologia o sociologia. Era, semplicemente, prete. Prete ambrosiano. E la sua ricetta era una sola: amore per il buon Dio, vicinanza con Gesù, amore tenero per Maria, frequentazione assidua dei sacramenti, fiducia nel potere del sacramento della riconciliazione, schiettezza nel proporre la Verità evangelica, amore per i piccoli. Con una consapevolezza di fondo: che nel Vangelo e nel Catechismo della Chiesa cattolica c’è tutto quel che serve e non occorre inventarsi niente di diverso.

Ricordo, soprattutto, che lei, caro don Filippo, prendeva molto sul serio noi bambini. Che cosa significa? Significa che non ci ha mai trattato come bamboccioni nei quali ficcare a forza alcune convinzioni. No, per lei noi eravamo persone in crescita. La differenza è decisiva: il vero educatore non inculca valori e convinzioni, come se l’educando fosse un vaso vuoto, ma suscita valori e convinzioni aiutando la persona a scovarli dentro di sé. Il vero educatore alimenta le risorse della coscienza, ben sapendo, come ha scritto il cardinale John Henry Newman (Lettera al Duca di Norfolk) che «la coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi.  E se mai potesse venir meno nella Chiesa l’eterno sacerdozio, nella coscienza rimarrebbe il principio sacerdotale ed essa ne avrebbe il dominio».

Ecco perché, caro don Filippo, le sono tanto grato. Lei per me è stato un testimone del primato della coscienza formata al messaggio del Vangelo. E davvero non è poco!

Fra i ricordi che conservo gelosamente nel cuore ci sono le indiavolate partite a pallone sul campetto di terra battuta, quello più piccolo, che stava in fondo all’oratorio (non quello bello, con l’erba, dove giocava la Victor). Su quel campetto noi bambini di quarta e quinta elementare della scuola Guglielmo Marconi abbiamo trascorso pomeriggi memorabili. Il fatto che ci fossero porte vere, ai nostri occhi, rendeva quello spazio magico, simile a San Siro. In genere facevamo i pali con i libri di scuola o con  qualche sasso. Lì invece avevamo le porte e noi ci sentivamo come i ragazzi della Via Pál: al posto della vecchia legnaia di Budapest c’era il campetto polveroso, ma uguale era lo spirito agonistico, anzi di vera battaglia. Non so se è ancora così, ma in quel tempo i maschi di nove e dieci anni avevano bisogno del combattimento, e l’oratorio ci consentiva di incanalare quello spirito entro i confini decisivi della responsabilità. Ai bordi del campo, di quel luogo di sfida, non c’erano adulti, ma lei, don Filippo, vigilava discretamente a distanza, soprattutto attraverso i ragazzi più grandi, che erano i suoi occhi e che a loro volta in quel modo si formavano alla responsabilità nel rispetto delle regole.

Se penso ai bambini di oggi, che vanno alle scuole calcio come se fossero professionisti, dotati di abbigliamento tecnico perfetto, mi viene una certa tristezza per loro. Noi non avevamo scarpette da calcio, ma solo scarpe da ginnastica bucate, o neppure quelle. Ma eravamo liberi nel senso più vero della parola: non liberi di fare quel che volevamo, ma liberi di applicare le norme interiorizzate grazie al lavoro costante del nostro don Filippo e dei suoi collaboratori. Nessun adulto ci stava con il fiato sul collo, nessuna mamma o papà teneva gli occhi fissi su di noi creando ansie e sensi di inadeguatezza, nessun allenatore ci sottoponeva a prove stressanti. Semplicemente, giocavamo! E quella era la meraviglia. Eravamo piccoli uomini impegnati a crescere non attraverso lo sport, ma attraverso il gioco, che è un’altra cosa. E dietro a tutto ciò c’era lei, caro don Filippo, con la sua tonaca nera indossata sempre, anche in estate con il sole a picco, con le sue battute in dialetto, con il suo sorriso benevolo, con i suoi rimproveri mai sopra le righe, con la sua infinita pazienza, con la sua attenzione verso ciascuno di noi. E poi, quando era il momento del catechismo, della messa o della confessione, tutti via dal campetto ed eccoci lì in fila, ancora impolverati e con le facce arrossate, ma pronti ad ascoltare, perché avvertivamo, caro don Filippo, che lei ci voleva bene e, pur senza alcuna ostentazione, si dedicava a noi con tutto se stesso. Era il nostro don Bosco, lo era davvero, e io, caro don Filippo, non sarei quello che poi sono diventato se non ci fosse stata quella radice così salda, e così bella da ricordare.

A volte mia moglie e i miei figli mi prendono in giro perché ripeto spesso, e con assoluta certezza, che ho avuto un’infanzia felice. Non è possibile, mi dicono: tutte le infanzie hanno sempre qualcosa di tragico. Sarà, ma la mia è stata felice non nel senso di immune da dolori, bensì perché vissuta in pienezza, e se è stata così lo devo anche a don Filippo, il nostro don Bosco, e all’oratorio San Carlo di via Bettinetti a Rho, il teatro delle nostre imprese, lo spazio nel quale siamo cresciuti imparando la libertà cristiana nella responsabilità.

Una volta lei ha raccontato che l’allora prevosto di Rho, monsignor Carlo Maggiolini, poco prima di morire, le affidò una missione tanto semplice quanto impegnativa: «Ti raccomando l’oratorio, fa’ sempre il bravo prete e salva tante anime». Era stato proprio Maggiolini a volere l’oratorio, intitolato a san Carlo Borromeo e inaugurato il 4 novembre 1955 dall’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI. Secondo me lei oggi può dire «missione compiuta». Sicuramente anche nella sua vicenda umana, come in quella di tutti, non sono mancati momenti di sofferenza, e sono sicuro che lei ha saputo affrontarli alla luce del Vangelo, con l’aiuto dello Spirito, il conforto di Maria e il supporto della preghiera. Non ha quindi bisogno di parole di consolazione, né io ho titolo per dirle qualcosa in proposito. Sappia comunque che qui c’è un ex bambino, oggi quasi sessantenne, che la ricorda con tanto affetto, con tanta stima e tanta gratitudine. Se, nonostante tutto, ho mantenuto la fede in nostro Signore e l’amore per la Chiesa, lo devo anche a lei che ha sempre fatto il bravo prete.

Con un abbraccio forte, suo

Aldo Maria

 

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