La triste storia delle Pachamame in fuga

Mi scrive un lettore: “Aldo Maria, attendiamo un tuo pezzo sul ratto della Pachamama!!! Te lo chiediamo a furor di popolo!!!”.

E vabbè.

Come avrete già capito, l’amico si riferisce alla notizia del giorno: le statuette idolatriche sottratte di buon mattino dalla chiesa di Santa Maria in Transpontina e gettate nelle acque del Tevere davanti a Castel Sant’Angelo, a cospetto dell’Arcangelo Michele dal quale prende il nome l’ex mausoleo di Adriano.

Le immagini che hanno documentato l’azione del commando hanno fatto in poche ore il giro del web, non solo a Roma, e ovviamente le opposte tifoserie si sono divise: ciò che per alcuni è stato un gesto inqualificabile e una vigliaccata, per altri è diventata un’azione eroica e una giusta ritorsione.

Ora, poiché io so esattamente quali sono stati i presupposti di quanto è accaduto, devo rivelarvi che la verità è un’altra. Ed è che sono state le statuette medesime, sì, proprio loro, le Pachamame, a mettere in moto tutto il meccanismo, a chiedere di essere sottratte alla custodia dei bravi carmelitani della Transpontina e infine di essere gettate all’alba nelle livide acque del fu biondo Tiber, oggi alquanto grigiastro e limaccioso.

La verità è che le Pachamame, a Roma, erano tristi. Lo so. I padri sinodali, teneri e misericordiosi, hanno fatto di tutto per distrarle. Le hanno portate in processione qua e là, perfino nella basilica di San Pietro. Le hanno messe al centro di un culto imprecisato nei giardini vaticani. Le hanno venerate, omaggiate, adorate, riverite. Il papa stesso si è scomodato. Ma non è servito a nulla. Un attacco di saudade acutissima, di nostalgia inconsolabile, le ha colte sul più bello, proprio mentre nella Transpontina la gente ballava e cantava attorno a loro, e da quel momento le poverette non hanno fatto altro che desiderare ardentemente una cosa sola: tornare in terra amazzonica.

Vi dirò che l’avevo intuito. Giorni fa, quando andai alla Transpontina per verificare di persona la presenza di una variopinta congerie di oggetti idolatrici, avvicinandomi alle due cappelle laterali nelle quali le Pachamame erano state collocate (non lontano da una perplessa Madonna del Carmine), notai l’espressione corrucciata, dire risentita, delle Pachamame. Restai sorpreso perché pensavo che per loro, per le statuette, un giro festoso nella Città Eterna, nel cuore del cattolicesimo, corrispondesse al non plus ultra, al massimo della soddisfazione possibile. Pensate: una vacanza pagata a Roma, con tanto di partecipazione a celebrazioni alla presenza del papa e tutti gli onori da parte dei padri sinodali commossi. E invece no. Invece le Pachamame l’hanno presa proprio male e, come talvolta accade ai rappresentanti di quei popoli dalle culture imperscrutabili, malinconia e rimpianto si sono impossessati di loro trasformandole in pallide copie delle orgogliose Pachamame che furono. A nulla è valsa la bellezza dei giardini vaticani, e nulla ha potuto la magia della basilica vaticana. Alle Pachamame quei luoghi hanno detto poco. Anzi, i giardini vaticani non hanno fatto altro che rinfocolare la nostalgia per la foresta amazzonica, mentre i marmi vaticani sono apparsi alle Pachamame, abituate al calore dei focolari nella selva, di una freddezza insopportabile.

E così hanno preso la grande decisione. Utilizzando i loro poteri, si sono messe in contatto telepatico con chi di dovere, e costoro, detto fatto, hanno provveduto a sottrarre le Pachamame a quella che esse avvertivano ormai come una prigione. Dorata, ma pur sempre una prigione.

Ora voi direte: ma l’Amazzonia è lontana diecimila chilometri dall’Italia. Come immaginare di fuggire?

In effetti le Pachamame in un primo tempo avevano pensato di imbarcarsi come clandestine sul primo volo da Fiumicino per il Brasile, ma, per quanto i loro poteri occulti siano notevoli,  l’impresa è risultata impossibile, anche perché, pare, furono messe in lista d’attesa.

Così decisero per il piano B. Anzi T. T come Tevere, appunto. Il fiume che con le sue acque le avrebbe condotte al mare, e di lì all’oceano e quindi alla salvezza in terra amazzonica.

D’accordo, hanno sibilato le Pachamame, il Tevere non è il Rio delle Amazzoni, ma, come si dice nella foresta, meglio un anaconda oggi che un formichiere domani. Così fu organizzato il rapimento, un finto rapimento in effetti, e alle Pachmamame fu restituita l’agognata libertà tramite tuffo dal Ponte degli Angeli.

Se non che.

Sebbene le Pachamame siano magiche e ne sappiano una più del diavolo, il Tevere non è proprio un ambientino dei migliori, e nemmeno chi è abituato alla selva amazzonica può pensare di cavarsela, là dentro, a buon mercato.

Insomma, per farla breve, le povere Pachamame non fecero neanche in tempo ad assaporare l’acqua del fiume di Roma che alcune pantegane (nome volgare del ratto delle chiaviche) se ne impossessarono. E a nulla valsero i superpoteri pachamamici.

Le statuette idolatriche le tentarono tutte. Una disse: “Ma il papa si è prostrato davanti a noi!”. E un’altra tentò di tramutarsi in un piranha famelico, ma le pantegane, per niente impressionabili, si limitarono a commentare: “Anvedi queste, ma chi se credono d’esse!?”. Dopo di che, senza troppi complimenti, le addentarono e smembrarono, trasformandole parte in dessert parte in stuzzicadenti.

Ecco, questa è la triste storia delle Pachamame, che da idoli serviti e riveriti finirono vittime della saudade, tentarono il gran ritorno nell’Amazzonia ma diventarono pasto per le pantegane romane. E in tutto questo, da qualche parte, c’è sicuramente una lezione.

Aldo Maria Valli

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