La falsa liberazione del Sessantotto

Cari amici di Duc in altum, dopo la prima puntata,  prosegue l’indagine del maestro Aurelio Porfiri negli anni della cultura beat, che ebbe ripercussioni decisive anche nella Chiesa.

A.M.V.

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Non v’è dubbio che il ventennio che va dagli anni Cinquanta ai Settanta del secolo scorso segnò una svolta nella società e nei rapporti sociali, così come nel costume e nella vita ecclesiale. Non a caso l’idea della Messa dei giovani prende forma proprio in quei decenni, segnati da fenomeni come il movimento beat, il Sessantotto, il Concilio Vaticano II, le rivolte studentesche, le tensioni internazionali, l’assassinio del presidente Kennedy e di Martin Luther King, l’esplosione della  musica rock e via dicendo.

Circa la cultura beat, Fernanda Pivano, che negli Stati Uniti fu a stretto contatto degli esponenti del movimento fin dal suo sorgere, nel libro Beat hippie yippie scrive: “Erano anni davvero magici, o almeno lo sono stati per alcuni di noi. Rappresentavano l’illusione di un mondo migliore: un mondo liberato dalla violenza, senza più competizione economica, barriere razziali, discriminazioni di sesso, confini nazionalistici: il suo esperanto doveva essere il rock, la sua meta un’esistenza che superasse il veleno del denaro,  il suo mezzo espressivo la poesia, il suo emblema l’energia vitale”.

Era il mondo prefigurato da John Lennon nella sua famosa Imagine: “Imagine there’s no heaven, It’s easy if you try, No hell below us, Above us only sky. Imagine all the people living for today; Imagine there’s no countries, It isn’t hard to do, Nothing to kill or die for, And no religion too…”. Un mondo che era stato preparato da secoli di propaganda contro l’ordine naturale, contro l’ordine cristiano.

Questa rivolta contro l’ordine naturale e la società cristiana era molto evidente proprio negli Stati Uniti, come ci conferma la stessa Fernanda Pivano: “I figli dei pellegrini e dei pionieri, dopo aver visto i loro padri sacrificare i sentimenti all’azione e basare l’azione sulla fede nelle virtù private e pubbliche, nel generale condizionamento che veniva dallo stimolo di trasformare in una foresta vergine e un deserto una democrazia a destinata a diventare colossale, cominciarono ad accorgersi, ora che la gigantesca macchina della democrazia era in moto e non richiedeva più un’azione così incalzante, di essere impreparati alla realtà del resistenza quotidiana. Una volta scoperto che la vita non era poi così bella come era stato loro insegnato e che la virtù non era la sola regola del gioco, non restava loro che denunciare, sia pure con scarsa speranza, l’equivoco; e colsero l’occasione del proibizionismo per condurre la loro protesta. I discendenti di Poe si misero a bere non più ‘per dimenticare’ ma per dichiararsi in rivolta con la società, per protestare contro le norme della società”.

La protesta ebbe alcune valvole di sfogo che dilagheranno in tutta la società, come l’uso delle droghe, la musica basata su ritmi ossessivi, la rivolta contro l’autorità. Ecco allora personaggi come Alan Ginsberg (1926-1977), poeta e scrittore che con un suo testo, non a caso chiamato Urlo (1956), darà un segnale chiaro alla sua generazione. Ed ecco la protesta contro le “sovrastrutture”, tra cui la Chiesa. La realtà stessa era considerata una sovrastruttura di cui liberarsi, fuggendola attraverso gli abusi alcolici, le droghe, il rifugio nella religiosità orientale.

Abbiamo personaggi come Jack Kerouac (1922-1969), cattolico tormentato capace di macerare la sua religiosità, confinante anche con il buddismo, nell’uso e abuso di sostanze di ogni tipo. Il suo famoso libro Sulla strada (1957) sarà un altro testo fondamentale per la beat generation, testo di rivolta e protesta.

Pietrangelo Buttafuoco su Il Fatto Quotidiano così ricorda Kerouac: “Dio è il padrone assoluto di tutte le cose. È l’Eterno onnisciente di bontà infinita e perciò è tollerante di qualunque libertà perché lo sa – Lui che premia i buoni e castiga i cattivi – di poter ricavare il bene anche dal male”.

Questi autori avevano un anelito religioso ma impazzito, una voglia di purezza basata non sulla realtà, ma sull’utopia. E il rock fu il loro linguaggio. La sempre gloriosa Treccani, parlando del beat come di un movimento di rivolta verso i valori tradizionali, così ne definisce la musica: “Con l’espressione musica beat si indica un fenomeno tipicamente britannico, che prese forma tra il 1962 e il 1967 e si caratterizzò anzitutto per la nuova strumentazione (chitarre e bassi elettrici, batteria), ripresa dal rock and roll; il suo primo repertorio, ancora non originale, si basava sui classici afroamericani del blues e del rythm and blues, assunti dai musicisti inglesi come espressione di una nuova sensibilità, estrapolata dalla matrice originaria e adattata, talvolta con l’esasperazione della componente individualistica, a far da bandiera dei nuovi bisogni della generazione postbellica. Mentre Animals, Who, Rolling Stones, Kinks e altri gruppi simili si mantenevano fedeli ai modelli afroamericani, ritenendoli più idonei alla creazione di un’immagine di ribellismo, altri gruppi, come i Beatles, meditavano tali presupposti con una maggiore attenzione agli sviluppi melodici, considerati consolatori dai detrattori. Il beat ebbe larga diffusione anche in Italia, per opera di una folta schiera di gruppi e di cantanti (Equipe 84, Rokes, F. Guccini, Caterina Caselli, Patty Pravo eccetera) che proponevano versioni italiane dei successi britannici o si ispiravano a questi per le loro composizioni. Più in generale, il termine beat identificò i comportamenti e le mode che si diffusero con la nuova tendenza musicale, dal nuovo modo di ballare (il cosiddetto shake) all’abbigliamento (minigonna per le ragazze, pantaloni attillati e camicie dai colori sgargianti per i ragazzi). La musica beat e il beat tramontarono sul finire degli anni  Sessanta, con l’emergere dei cantautori e con il radicalizzarsi dei movimenti di protesta giovanili”.

Corrado Gnerre, nel suo La rivoluzione nell’uomo, così parlerà del Sessantotto: “Dunque il Sessantotto fu un movimento rivoluzionario che nacque per perseguire l’abbattimento di ogni forma di autorità e di vincolo giuridico e morale, ma attenzione: tanto sul piano sociale quanto soprattutto su quello individuale“. Un movimento rivoluzionario ben preparato nei decenni precedenti e che aveva come ultimo scopo quello di sovvertire l’ordine costituito, servendosi anche della musica, strumentale alle molte “rivoluzioni” che non hanno mai più cessato di far sentire i loro effetti nella nostra società, come la rivoluzione dei costumi, la rivoluzione sessuale, il femminismo militante, il divorzio, l’aborto e via dicendo. “Sesso, droga e rock n’roll”, secondo il noto adagio sessantottino.

Ancora Gnerre: “Ebbene, il Sessantotto ha manifestato tutto il suo odio nei confronti della realtà. La famosa frase ‘l’immaginazione al potere’ deve essere letta proprio in questa prospettiva, ovvero nel rifiuto totale del reale come principio di riconduzione dell’esistenza umana”.

Nel libro di Gnerre è citato un testo di W.J. Matt che così spiega: “Il rombo martellante della musica rock mira intenzionalmente a scatenare l’eccitazione sessuale degli uditori, specie dei giovani. La spiegazione di questa forte affermazione è presto data. Il rock non ha alcuna traccia di melodia (…). Ai membri dell’American Psychiatric Association il Dr. Howard Hanson è arrivato a dire quanto segue: ‘In primo luogo, tenuto conto di tutto il resto, più il movimento sorpassa il ritmo normale, più si va ad accrescere anche la tensione emotiva. In secondo luogo, fintanto che una certa regolarità scandisce la successione delle sbarre di misura e i tempi forti mantengono al pezzo una traccia di ritmo basilare, l’effetto può risultare anche comico, senza per altro risultare squilibrante. Infine, si tenga presente che la tensione indotta dal ritmo può aggravarsi, qualora si intensifichi il suono’ ”.

È un ritorno all’uso dionisiaco della musica, già conosciuto nelle religioni pagane e che Friederich Nietzsche nel suo La nascita della tragedia mette accanto a quello apollineo, identificandoli come le due facce della stessa medaglia.

Marcello Veneziani, nel suo Rovesciare il Sessantotto, ben identifica l’inganno di questo anno fatale: “Il ’68 fu un movimento di liberazione ma non di libertà. La liberazione implica il desiderio di emanciparsi anche dalla propria identità, dall’appartenenza a una famiglia, a un luogo, a una lingua, a una religione, a una civiltà, a ogni tradizione. La libertà piena, invece, implica la responsabilità e il dovere, persegue un fine, esige il rispetto degli altri, si coniuga con la tradizione, riconosce il merito personale e la realtà. L’opposto del ’68. È libertà per l’essere e non per disfarsi dell’essere”.

E certamente, prosegue Veneziani, questa “liberazione” si fece sentire anche nella Chiesa e nel suo tesoro più prezioso, la liturgia: “Era l’ultima messa in latino nella cattedrale del mio paese, con un’offerta di venti lire per sedere nel coro, a fianco di mio padre. Ho ancora negli occhi, nel naso e nelle orecchie la bellezza di questo rito, il profumo dell’incenso, il mistero di quelle parole. Ti sentivi connesso alla rete del Signore. Il prete si rivolgeva a Dio e non gli dava le spalle per compiacere i fedeli come se la messa fosse un’assemblea condominiale o un comizio per cercare consensi; le parole sussurrate e antiche, il mistero di quelle formule, i canti gregoriani, promanavano il sacro e avvicinavano al Signore. La messa non è una soap opera, non è necessario capire le parole; è un rito di comunione con Dio e non un foglio d’istruzioni per montare una lavatrice. Chi dice che il mistero di quelle parole serviva per sottomettere il volgo al dominio del clero non si rende conto di quanti linguaggi iniziatici ed esoterici è infarcito il gergo corrente, dalla tecnologia alla finanza, dai misteri criptati di un computer ai labirinti fiscali. La casta sacerdotale ha lasciato l’egemonia alla casta dei tecnici, burocrati e commercialisti. Ciascuna setta ha il suo latinorum”.

Quanto detto da Veneziani, in fondo da outsider, ci collega a quanto possiamo osservare noi da insider nell’agone cattolico. Non è stato Benedetto XVI che ci ha richiamato a una riconsiderazione attenta dell’ermeneutica di quel Concilio che da alcuni è stato usato proprio per affermare le tendenze culturali e sociali che come cattolici avremmo avuto il dovere di combattere? Ricordiamo il famoso discorso del 22 dicembre 2005 alla curia romana per gli auguri natalizi, in cui papa Ratzinger affrontò proprio il tema dell’ermeneutica del Concilio: “I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’’ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.

Nella Chiesa alcuni esponenti, molto potenti, hanno cercato di adottare una dinamica da rivoluzione permanente, in lotta contro tutto ciò che sa di tradizione. E la musica è stata utilizzata come strumento. Un progetto all’interno del quale i giovani, lungi da esserne i protagonisti, sono stati a loro volta strumentalizzati. L’utopia pensava che l’uso liturgico dei linguaggi beat, rock e pop avrebbe fermato l’emorragia di fedeli che si annunciava all’orizzonte. Così non è stato.

Aurelio Porfiri

2.continua

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