Francesco, il peccato, la fragilità

Dopo il mio intervento a Radioromalibera intitolato C’era una volta il peccato, ripreso anche nel mio blog Duc in altum, un amico mi ha scritto dicendomi: “Guarda che ti sbagli a dire che papa Francesco ha eliminato il peccato. Anzi, ne parla spesso, specie nelle omelie durante le Messe del mattino a Santa Marta”.

Ringrazio l’amico per la segnalazione, ma lo so anch’io che Francesco ha parlato e parla del peccato. Il che rende la situazione ancora più grave. Perché? Perché quella che emerge è ancora una volta una grandissima confusione nutrita dall’ambiguità.

Nel mio intervento a Radioromalibera, lo ricordo, ho voluto mettere in evidenza come in molti ambienti della Chiesa cattolica il concetto di “fragilità” sia ormai preferito a quello di “peccato”. Una sostituzione che la dice lunga. Mentre la categoria di peccato rimanda al rapporto uomo-Dio e al necessario giudizio di Dio nei confronti dell’uomo, la categoria di fragilità rimanda essenzialmente a un problema tutto interno all’uomo, senza alcun giudizio da parte di Dio. Se sono peccatore ho bisogno di umiliarmi, riconoscere di aver sbagliato, chiedere perdono e accettare il giudizio. Se sono fragile ho bisogno di essere compreso, vedermi riconoscere delle attenuanti e chiedere non di essere giudicato, ma giustificato.

Ho scritto che in Amoris laetitia lo si vede bene, e lo confermo. Nel capitolo ottavo dell’esortazione apostolica il concetto di “discernimento” è utilizzato per far entrare il relativismo nell’insegnamento della Chiesa. E non è certamente un caso che quel capitolo sia intitolato  Accompagnare, discernere e integrare la fragilità, tre verbi e un sostantivo che ci portano nel cuore del magistero ambiguo, subdolo e ambivalente che caratterizza l’attuale pontificato. Formalmente Amoris laetitia non abroga il modello del matrimonio cattolico e anzi continua a indicarlo come obiettivo, ma nello stesso tempo lascia intendere che si tratta di un modello molto alto, quasi fuori portata, e quindi punta sulle attenuanti che le persone possono invocare se e quando non riescono a conformarsi a quel modello. In primo piano non c’è più la legge divina, ma ci sono i limiti umani. E non c’è più la fiducia nella grazia, in grado di operare nonostante il peccato, ma c’è il tentativo di giustificare il limite umano, identificato appunto con una congenita fragilità che rende l’uomo come un bambino che non può crescere ed è dunque bisognoso di essere sempre accolto e compreso per quello che è.

Stefano Fontana nel suo libro Esortazione o rivoluzione? Tutti i problemi di “Amoris laetitia” ha scritto che il documento papale è “una rivoluzione di velluto”. Lo è, direi, nel senso deteriore del termine, perché giocata tutta sul filo dell’ambiguità, tanto è vero che, di fatto, è interpretata in modi opposti. D’altra parte è lo stesso Francesco a sostenere che “dobbiamo avviare processi, non occupare spazi”. Ecco il suo modo di destrutturare il magistero e il papato stesso. Che vuol dire precisamente “avviare processi”? E verso dove avviarli? Nel caso di Amoris laetitia l’unico processo avviato sembra essere quello della confusione e della divisione. Il capitolo ottavo dell’esortazione è così radicalmente ambiguo che pur essendo di ordine pastorale lascia trasparire cambiamenti di tipo dottrinale. Ma come fa il fedele a orientarsi? Giustamente il compianto cardinale Caffarra disse a proposito della comunione ai divorziati risposati: “Se il Santo Padre Francesco avesse voluto introdurre un cambiamento al riguardo, avrebbe dovuto dirlo espressamente e chiaramente”. Già, ma non lo ha detto. E non l’ha detto perché non lo vuole dire. Vuole “avviare processi”.

Tornando alla questione del peccato, in Amoris laetitia troviamo questa affermazione: “Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o di imperfezione” (n. 296). Vedete? “Fragilità” e “imperfezione” hanno sostituito la parola “peccato”, che nell’esortazione non appare mai. Scrive giustamente Fontana: “La parola peccato ha un significato biblico e teologico chiaro e confermato dalla tradizione, la parola fragilità, invece, ha un senso esistenziale piuttosto vago”. Ma è proprio la vaghezza quella perseguita dal testo, così che ognuno possa regolarsi in modo diverso, soggettivo. E non dimentichiamo che Francesco ha detto che non si può fare “una lettura rigida della dottrina”.

La parola “imperfezione” in questo contesto è altamente significativa. Mentre il peccato è chiaramente distacco da Dio e dalla sua legge, e dunque è male, il concetto di imperfezione rimanda all’idea che il distacco da Dio sia un bene imperfetto, una condizione in cui è presente comunque una dose di perfezione. Ma, se così è, significa che, in netta opposizione all’insegnamento di Veritatis splendor, non ci sono azioni cattive in sé, non ci sono comportamenti che costituiscono un male intrinseco. Ci sono solo diversi gradi di perfezione.

Secondo Amoris laetitia questa indeterminatezza, questa disponibilità a fare delle attenuanti la chiave interpretativa dei comportamenti e delle scelte, sarebbe un modo di “aiutare” e “sostenere” i coniugi. Ma in questo modo il papa agisce come quegli insegnanti i quali, ritenendo che i loro alunni siano strutturalmente incapaci ottenere ottimi risultati, li abituano ad accontentarsi di poco. Nel nostro caso, al posto del risultato scolastico c’è la santità.

Ha dunque ragione il mio amico quando mi fa notare che in realtà il papa, specie nelle Messe del mattino a Santa Marta, parla del peccato, ma io rispondo, e così torno all’inizio della mia argomentazione, che il fatto che ne parli rende il suo magistero ancora più ambiguo e confuso.

Ho delineato nel mio libro 266. Jorge Mario Bergoglio Franciscus P.P. e sostenuto in passato nel mio blog, che l’insegnamento di Francesco è caratterizzato dalla logica del “sì, ma anche”. In Amoris laetitia lo si vede, per esempio, là dove è scritto: “Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano”.

Vedete? Il nodo sta in quel “ma ciò non impedisce”. Perché ciò non lo impedisce? A questa domanda non corrisponde mai una risposta chiara. C’è solo l’idea, a sua volta vaga e indeterminata, che quel “ma ciò non impedisce” sia un modo di aprirsi all’azione dello Spirito Santo. Ma allora lo Spirito Santo è relativista?

In conclusione torno su un punto che mi è caro. Nella Chiesa attuale sembra che nessuno tenga presente il fatto che noi battezzati abbiamo il diritto, sancito perfino dal Codice di diritto canonico, di ricevere un insegnamento chiaro e limpido in ordine alla nostra formazione spirituale. Un diritto fondamentale, perché in gioco c’è la salvezza dell’anima. Ma un diritto che, al momento, in questa situazione di voluta ambiguità, non è affatto rispettato.

Aldo Maria Valli    

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