Il nuovo “Padre nostro”? Frutto del protagonismo umano e della smania di cambiamento

Il nuovo Padre nostro arriverà dunque dopo Pasqua, con il “non abbandonarci alla tentazione” al posto del “non indurci”. Un cambiamento  che non soddisfa tutti, come ci dice in questa conversazione don Alberto Strumia, della diocesi di Bologna, ben noto ai lettori di Duc in altum.

Don Alberto, che impressione ha di fronte alla nuova traduzione del Padre nostro?

Non sono né un esegeta né un liturgista, per cui non oso cimentarmi in questo campo. Lascio agli esperti gli aspetti tecnici delle traduzioni dal greco al latino e all’italiano del passaggio dalla formulazione plurisecolare “non ci indurre in tentazione” del Padre nostro, finora presente nel Messale Romano in italiano e in uso nella recita del Rosario e personale da quando esiste la lingua italiana, alla nuova versione che sarà presente nella prossima edizione e che prevede la formula “non abbandonarci alla tentazione”.

Al di là della traduzione, si ha la netta impressione, per non dire la certezza morale, che oggi chi ha la smania di questi cambiamenti lo stia facendo più per protagonismo e per rompere la già fragile unità della liturgia e della vita della Chiesa, in nome del relativismo dilagante, che per una vera preoccupazione per il bene delle anime. E questa sarebbe un’attenzione educativa e pastorale?

Già prima dell’adozione della nuova edizione del Messale in non poche Messe si sente, ormai, una mescolanza di voci che adottano versioni diverse: chi dice in anticipo sui tempi, per fare l’aggiornato, “non abbandonarci alla tentazione” si sovrappone a chi dice, come si è sempre fatto, “non ci indurre in tentazione”. Alcuni preti tacciono in corrispondenza di quella frase per lasciare liberi i fedeli e non parteggiare per l’una o l’altra formulazione.

Senza contare i gesti…

Infatti. Accanto a chi recita normalmente non manca chi recita prendendo per mano il vicino perché “fa più fraternità”, chi si atteggia a braccia allargate per sentirsi un po’ più simile al sacerdote e un po’ meno solamente laico (clericalizzazione dei laici), oltre al prete che scende in mezzo alla gente per essere “più pastorale” (laicizzazione dei preti), e altre simili invenzioni.

Ma questo è solo protagonismo, solo pseudo-creatività che mette al centro gli individui – e neppure il popolo – invece del Signore, che è il vero “centro del cosmo e della storia” (Redemptor hominis, n. 1), quindi della liturgia.

Sembra che lo abbiamo dimenticato, ma che cosa c’entra tutto questo con il Sacrificio di Cristo che si celebra nella Messa? Il fatto è che si sta insegnando a essere gli inventori di un nuovo “cristianesimo”, di una nuova religione mondiale umanitaria, senza rendersi conto (peggio ancora se lo si fa consapevolmente!) che questa è pura gnosi e umanitarismo massonico! E questo sarebbe il “nuovo paradigma”!

Se san Girolamo nel tradurre dal greco al latino sembra aver preferito una traslitterazione piuttosto che un’interpretazione del testo, quasi per non osare di rischiare di manipolare le parole del Signore, e così hanno fatto coloro che ci hanno dato la traduzione italiana vigente fino a ora, la prudenza dovrebbe suggerire di non rischiare e di fidarsi più del modo di procedere di un dottore della Chiesa piuttosto che di noi stessi.

Perché non mantenersi “dal lato del sicuro” di fronte ad un testo non facile da rendere in italiano? Non si rischia quasi di bestemmiare accusando Dio di “abbandonarci alla tentazione”, piuttosto che dire, come tutti dicono senza sentirsi angosciati, “non ci indurre in tentazione”? Non mi sembra si tratti di un miglioramento…

Allora dire “abbandonarci” è fuorviante ed errato? Si tratta piuttosto di spiegare il senso del termine “tentazione”?

Non è poi così difficile capire che “tentazione”, traslitterato dal latino e dal greco, qui sta per “prova”, e non è difficile spiegarlo alla gente. È molto peggio dire che Dio ci può “abbandonare” come un padre incosciente, se non gli chiediamo di non farlo, piuttosto che dire che può legittimamente “metterci alla prova” come fa ogni genitore serio con i propri figli per educarli ad affrontare la vita, e come fa ogni collaudatore per verificare la tenuta delle strutture o delle macchine prima di metterle a disposizione del pubblico o in circolazione per le strade.

Lo diceva già san Tommaso d’Aquino, il grande dottore comune di tutta la Chiesa (doctor communis ecclesiae), nel XIII secolo: tentare non è altro che sperimentare la tenuta di qualcuno, metterlo alla prova per valutarne la solidità, “tentare nihil aliud est quam experiri seu probare: unde tentare hominem est probare virtutem eius” (Commento alla Preghiera del Signore, a. 6). Gli chiediamo allora, di non essere messi troppo alla prova per non rischiare di non reggere e questo avviene subito dopo dicendo “ma liberaci dal male”.

Nessuno ha osato, prima di ora, correggere le parole del Signore, o di  migliorarle, nella presunzione di essere, oggi, arrivati più avanti di Lui, grazie a un evoluzionismo storicista che colloca Gesù stesso in uno stadio ormai superato della storia, o addirittura in uno stato di non consapevolezza della propria natura divina oltre che umana. Non le sembra che stiamo esagerando?

Ma oggi si dice che i Vangeli sono in gran parte opera redazionale e non riportano necessariamente e letteralmente le parole di Gesù, perché allora non c’erano registratori…

Ma non possiamo neppure essere certi del contrario, a meno che non rinunciamo ad avere fede nell’ispirazione dell’autore sacro. Meglio mettersi dalla parte del sicuro, se non altro almeno per prudenza, se non per fede. E il Padre nostro è una l’unica preghiera che Gesù ha insegnato in prima persona e, come tale viene riportata.

Se le cose stanno così, allora la questione della traduzione del Padre nostro è solo la punta dell’iceberg?

È proprio così. Dietro c’è una concezione viziata della storia, della realtà, dell’uomo, di Dio e, di conseguenza, del cristianesimo, della Chiesa e della liturgia. Lo abbiamo già visto a proposito della famiglia e del matrimonio, dell’Eucaristia ridotta a simbolo di solidarietà umana, con la messa in secondo piano della presenza reale di Cristo in corpo sangue anima e divinità e il conseguente uso profano e politico delle chiese.

E poi del sacerdozio con la questione del celibato sempre con la scusa della “pastoralità”, come se uno sposato potesse essere più disponibile a spostarsi da un posto all’altro per il servizio pastorale di quanto non lo sia uno celibe. O come se il solo fatto di essere sposati fosse sufficiente a suscitare vocazioni sacerdotali. È ridicolo e irragionevole, oltre che provato dai fatti, presso le confessioni non cattoliche che hanno ministri del culto sposati.

Si è dimenticato che Cristo è l’“esemplare” (secondo la categoria teologica dell’“esemplarità”) del modo di essere sacerdote e dell’amore. Nell’eternità sarà quella di Cristo la modalità affettiva, il modo di amare a cui tutti saranno condotti (“Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito”, Mt 22,30).

Allora, don Alberto, rischia di essere perfino oziosa una discettazione sulla traduzione del Padre nostro se non siamo in grado di vedere tutto il resto dell’iceberg che sta sotto?

È giusto mettere a fuoco anche la problematica della traduzione, ma non si può sottacere il problema di fondo che è quello della fede e di una fede che risana anche la ragione. Come ebbe a scrivere l’allora cardinale Ratzinger: “Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla appunto nuovamente a se stessa” (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 142). E se viene meno una fede ragionevolmente sostenuta, si finisce per banalizzare tutto, anche la liturgia e le traduzioni. Illudendosi di farsi meglio capire si finisce per essere assorbiti dal pensiero unico che pilota il mondo; e questo è satanico.

Lei, nella sua diocesi di Bologna, adotterà la nuova traduzione?

Personalmente non penso che lo farò, preferendo piuttosto magari tornare al testo latino, se non incontrerò la disponibilità a mantenere la traduzione italiana che ci accompagna nella recita personale della preghiera del Signore e del Rosario, da quando esiste la nostra lingua.

Sono stato particolarmente toccato quando, a Gerusalemme, nella chiesa del Pater noster, dove si trovano tante grandi maioliche che riportano questa preghiera, ciascuna in una diversa lingua, quella in italiano porta la dizione “non ci indurre in tentazione”. Voglio sperare che nessuno osi cambiarla!

A.M.V.

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