Viganò: “Non penso che il Vaticano II sia invalido, ma è stato gravemente manipolato”

Cari amici di Duc in altum, il dibattito sul Concilio Vaticano II continua a tenere banco e si arricchisce di giorno in giorno. John-Henry Westen di LifeSiteNews ha scritto a monsignor Carlo Maria Viganò chiedendogli delucidazioni in merito ai suoi più recenti interventi in materia. Una, soprattutto, la questione posta da Westen: Viganò ritiene che il Vaticano II sia un concilio invalido? Di seguito la lettera di Westen e l’articolata risposta dell’arcivescovo.

A.M.V.

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Caro arcivescovo Viganò, spero di avere un chiarimento da lei sui suoi ultimi testi riguardanti il Concilio Vaticano II.

Nel suo testo del 9 giugno ha affermato che è innegabile che dal Vaticano II in poi si sia costituita una chiesa parallela, sovrapposta e contrapposta alla vera Chiesa di Cristo”.

Nella successiva intervista con Phil Lawler, egli le ha chiesto: “Qual è la soluzione? Mons. Schneider suggerisce che un futuro Pontefice debba ripudiare gli errori; Ella trova questa proposta inadeguata. Ma allora come si possono correggere gli errori, in modo da mantenere l’autorità di insegnamento del Magistero?

Lei ha risposto: “Toccherà ad un suo Successore, al Vicario di Cristo, nella pienezza della sua potestà apostolica, riprendere il filo della Tradizione là dove esso è stato reciso. Questa non sarà una sconfitta, ma un atto di verità, di umiltà e di coraggio. L’autorità e l’infallibilità del Successore del Principe degli Apostoli ne usciranno intatte e riconfermate.”

Da ciò non è chiaro se Ella crede che il Vaticano II sia un concilio invalido e quindi debba essere completamente ripudiato, o se crede che, pur essendo un concilio valido, esso contiene molti errori per cui sarebbe più proficuo per i fedeli dimenticarlo, e riferirsi al Vaticano I e altri concili per il loro sostentamento. Credo che questo chiarimento sarebbe utile.

In Cristo e nella sua amata Madre

JH

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1° luglio 2020

In festo Pretiosissimi Sanguinis

Domini Nostri Iesu Christi

Caro John-Henry, la ringrazio per la sua lettera, con la quale mi dà l’opportunità di chiarire quanto ho già avuto modo di esprimere sul Vaticano II. Questo delicato argomento sta coinvolgendo eminenti personalità del mondo ecclesiastico e non pochi laici eruditi: confido che il mio modesto contributo possa aiutare a sollevare la coltre di equivoci che grava sul Concilio, portando così ad una soluzione condivisa.

Ella parte dalla mia constatazione iniziale: «It is undeniable that from Vatican II onwards a parallel church was built, superimposed over and diametrically opposed to the true Church of Christ», per poi citare le mie parole sulla soluzione dell’empasse nel quale ci troviamo oggi: «It will be for one of his Successors, the Vicar of Christ, in the fullness of his apostolic power, to rejoin the thread of Tradition there where it was cut off. This will not be a defeat but an act of truth, humility, and courage. The authority and infallibility of the Successor of the Prince of the Apostles will emerge intact and reconfirmed.»

Lei ha affermato che non è chiara la mia posizione – “whether you believe Vatican II to be an invalid council and thus to be complete repudiated, or if you believe that while a valid council it contained many errors and the faithful would be better served by having it forgotten about.” Io non ho mai pensato e tanto meno affermato che il Vaticano II sia stato un Concilio Ecumenico invalido: esso infatti è stato convocato dall’autorità suprema, dal Sommo Pontefice, e ad esso hanno preso parte tutti i Vescovi del mondo. Il Vaticano II è un Concilio valido, sorretto dalla stessa autorità del Vaticano I e del Tridentino. Tuttavia, come ho già scritto, esso è stato fatto oggetto fin dal suo nascere di una grave manipolazione da parte di quinte colonne penetrate in seno alla Chiesa che ne hanno pervertito gli scopi, confermati dai risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti. Ricordiamo che nella Rivoluzione francese, il fatto che gli Stati generali siano stati convocati legittimamente il 5 maggio 1789 da Luigi XVI, non ha impedito che degenerassero nella Rivoluzione e nel Terrore (l’accostamento non è fuori luogo, visto che l’evento conciliare fu definito dal cardinale Suenens “il 1789 della Chiesa”).

Nel suo recente intervento, sua eminenza il cardinale Walter Brandmüller sostiene che il Concilio si ponga in continuazione con la Tradizione e a comprova di ciò ha rilevato: «È sufficiente dare uno sguardo alle note del testo. Si può così constatare che all’interno del documento vengono citati addirittura dieci concili precedenti. Tra questi, il Vaticano I viene portato come riferimento 12 volte, il Tridentino ben 16. Già da questo si evince che, per esempio, un “distacco da Trento” va escluso in maniera assoluta. Ancora più stretto appare il rapporto con la Tradizione, se si pensa che, tra i pontefici, Pio XII viene citato 55 volte, Leone XIII in 17 occasioni e Pio XI in 12 passi. A loro si aggiungono poi Benedetto XIV, Benedetto XV, Pio IX, Pio X, Innocenzo I e Gelasio. L’aspetto più impressionante è tuttavia la presenza dei Padri nei testi di Lumen gentium. I Padri, ai cui insegnamenti fa riferimento il concilio, sono addirittura 44. Tra loro spiccano Agostino, Ignazio di Antiochia, Cipriano, Giovanni Crisostomo e Ireneo. Vengono inoltre citati i grandi teologi, ovvero i dottori della Chiesa: Tommaso d’Aquino in ben 12 passi, insieme ad altri sette nomi di peso.»

Come ho fatto notare nel caso analogo del Conciliabolo di Pistoia, la presenza di contenuti ortodossi non esclude la presenza di proposizioni eretiche né ne attenua la gravità, né la verità può esser usata anche per nascondere un solo errore. Al contrario, le numerose citazioni di altri Concili, di atti magisteriali o dei Padri della Chiesa possono proprio servire a celare, con un intento doloso, i punti controversi. A tal proposito è utile ricordare le parole del Tractatus de Fide orthodoxa contra Arianos, citate da Leone XIII nell’enciclica Satis Cognitum:

«Niente vi può essere di più pericoloso di questi eretici, i quali, mentre percorrono il tutto [della dottrina] senza errori, con una sola parola, come con una stilla di veleno, infettano la pura e schietta fede della divina e dell’apostolica tradizione». Commenta Leone XIII: «Tale, appunto, fu sempre il modo di comportarsi della Chiesa, e ciò anche per l’unanime giudizio dei santi Padri, i quali considerarono sempre eretici e scomunicati tutti coloro che, anche per poco, si allontanarono dalla dottrina proposta dal legittimo magistero.»

Sulle colonne de L’Osservatore Romano, in un articolo del 14 aprile del 2013, il cardinale Kasper ha ammesso che «in molti luoghi [i Padri conciliari] hanno dovuto trovare formule di compromesso, in cui, spesso, le posizioni della maggioranza (conservatori) si trovano accanto a quelle della minoranza (progressisti), progettate per delimitarle. Pertanto, gli stessi testi conciliari hanno un enorme potenziale di conflitto, aprono la porta a un’accoglienza selettiva in entrambe le direzioni.» Ecco da dove derivano le rilevanti ambiguità, le patenti contraddizioni e i gravi errori dottrinali e pastorali.

Si potrà obbiettare che il prendere in considerazione la presunzione del dolo in un atto magisteriale dovrebbe essere respinta con sdegno, dal momento che il Magistero deve esser finalizzato a confermare i fedeli nella Fede; ma forse è proprio il dolo a far sì che un atto si riveli non magisteriale e ne autorizzi la condanna o ne decreti la nullità. Sua eminenza Brandmüller chiudeva il suo commento con queste parole: «Sarebbe opportuno evitare quella “ermeneutica del sospetto” che accusa l’interlocutore in partenza di concezioni eretiche.» Certamente condivido questo auspicio in astratto e in generale, ma ritengo opportuno formulare un distinguo per inquadrare meglio il caso concreto. Per far ciò, è necessario abbandonare quell’atteggiamento un po’ troppo legalista che considera tutte le questioni dottrinali inerenti la Chiesa come riconducibili e risolvibili principalmente sulla base di un riferimento normativo: non dimentichiamo che la legge è al servizio della Verità, e non il contrario. E lo stesso vale per l’Autorità che di quella legge è ministra e di quella Verità custode. D’altra parte, quando Nostro Signore affrontò la Passione, la Sinagoga aveva disertato la propria funzione di guida del popolo eletto nella fedeltà all’Alleanza, come parte della Gerarchia sta facendo da sessant’anni.

Questo atteggiamento legalista è alla base dell’inganno dei Novatori, i quali hanno escogitato un modo semplicissimo per attuare la Rivoluzione: imporla in forza di autorità con un atto che la Chiesa docente adotta per definire verità di Fede con valore vincolante per la Chiesa discente, ribadendo quell’insegnamento in altri documenti altrettanto vincolanti, seppure in grado diverso. Si è insomma deciso di apporre l’etichetta “Concilio” ad un evento concepito da alcuni con lo scopo di demolire la Chiesa, e per farlo i congiurati hanno agito con intenzione dolosa e con finalità eversive. Lo dice candidamente padre Edward Schillebeecks, OP: «Nous l’exprimons d’une façon diplomatique, mais après le Concile nous tirerons les conclusions implicites». «Ora lo diciamo in modo diplomatico, ma dopo il Concilio ne trarremo le conseguenze implicite» (De Bazuin, n.16, 1965).

Non ci troviamo quindi dinanzi ad una “ermeneutica del sospetto”, ma al contrario dinanzi a qualcosa di ben più grave di un sospetto, corroborato dalla valutazione equanime dei fatti, oltre che dalle stesse ammissioni dei protagonisti. Al riguardo, chi di loro è più autorevole dell’allora cardinale Ratzinger?

«Sempre più cresceva l’impressione che non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva somigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno. Chi veniva informato in questo modo, si vedeva indotto a prendere a sua volta posizione per un partito. […] Se a Roma i vescovi potevano cambiare la Chiesa, anzi, la stessa fede (così almeno pareva), perché solo ai vescovi era lecito farlo? La si poteva cambiare, e, al contrario di quel che si era sino ad allora pensato, questa possibilità non pareva più sottratta alla capacità umana di decidere, ma, secondo tutte le apparenze, era posta in essere proprio da essa. Ora, però, si sapeva che il nuovo che i vescovi sostenevano, lo avevano appreso dai teologi; per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro» (cfr. J. Ratzinger, La mia vita, Edizioni San Paolo, 1997, pp. 99).

È doveroso a questo punto richiamare l’attenzione su un paradosso ricorrente anche nelle questioni del mondo: il mainstream chiama “complottisti” coloro che svelano e denunciano il complotto che il mainstream stesso ha ideato, per deviare l’attenzione dal complotto e delegittimare chi lo denuncia. Analogamente, mi sembra che vi sia il rischio di definire “ermeneutici del sospetto” quanti svelano e denunciano la frode conciliare, come se fossero persone che immotivatamente accusano «l’interlocutore in partenza di concezioni eretiche.» Occorre invece comprendere se l’azione dei protagonisti del Concilio possa giustificare il sospetto nei loro confronti, se non addirittura renderlo doveroso; e se il risultato ottenuto da costoro legittimi una valutazione negativa per l’intero Concilio, per alcune sue parti o per nessuna. Se ci ostiniamo a pensare che chi ha concepito il Vaticano II come evento eversivo rivaleggiava in pietà con Sant’Alfonso e in dottrina con San Tommaso, dimostriamo un’ingenuità che mal si concilia con il precetto evangelico, ed anzi sconfina se non nella connivenza, certamente con la sprovvedutezza. Non mi riferisco ovviamente alla maggioranza dei Padri conciliari, che certamente erano animati da pie e sante intenzioni; parlo invece dei protagonisti dell’evento-Concilio, dei cosiddetti teologi che fino al Vaticano II erano stati colpiti da censure canoniche e allontanati dall’insegnamento, e che proprio in forza di ciò furono scelti e promossi e aiutati, sicché le patenti di eterodossia valsero loro un motivo di merito, mentre l’indiscussa ortodossia del cardinal Ottaviani e dei suoi collaboratori al Sant’Uffizio fu motivo sufficiente per dare alle fiamme gli schemi preparatori del Concilio con il consenso di Giovanni XXIII.

Dubito che dinanzi a monsignor Bugnini – giusto per fare un nome – un atteggiamento di prudente sospetto sia censurabile o che manchi di Carità, al contrario: la disonestà dell’autore del Novus ordo nel perseguimento dei propri scopi, la sua appartenenza alla Massoneria e le sue stesse ammissioni nei diari dati alle stampe, ci mostrano che i provvedimenti presi da Paolo VI nei suoi riguardi furono sin troppo clementi e inefficaci, poiché tutto quello che egli fece nelle Commissioni conciliari e alla Congregazione dei riti rimase intatto e divenne, nonostante ciò, parte integrante degli Acta Concilii e delle riforme collegate. Ben venga, dunque, l’ermeneutica del sospetto, se serve per dimostrare che i motivi di sospetto ci sono e che spesso questi sospetti si concretizzano in certezza del dolo.

Torniamo al Vaticano II, per mostrare quale sia la trappola nella quale sono caduti i buoni Pastori, indotti in errore assieme al loro gregge da una astutissima opera di inganno di persone notoriamente infette di modernismo e non di rado traviate anche nella condotta morale. Come scrivevo poc’anzi, la frode risiede nel ricorso ad un Concilio come contenitore di una manovra sovversiva, e nell’utilizzo dell’autorità della Chiesa per imporre la rivoluzione dottrinale e morale, liturgica e spirituale che è ontologicamente contraria allo scopo per il quale un Concilio viene indetto e l’autorità magisteriale viene esercitata. Ripeto: l’etichetta “Concilio” apposta sulla confezione non ne rispecchia il contenuto.

Abbiamo assistito ad un nuovo e diverso modo di intendere le stesse parole del lessico cattolico: l’espressione “concilio ecumenico” data al Tridentino non coincide al significato che ne danno i fautori del Vaticano II, per i quali “concilio” allude alla conciliazione e “ecumenico” al dialogo interreligioso. Lo “spirito del concilio” è “spirito di conciliazione, di compromesso”, così come l’assise fu solenne e pubblica attestazione di dialogo conciliante col mondo, per la prima volta nella storia della Chiesa.

Scriveva Bugnini: «Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti» (cfr. L’Osservatore Romano, 19 marzo 1965). Da queste parole comprendiamo che l’intento della riforma, frutto della mens conciliare, era di attenuare la proclamazione della Verità cattolica per non urtare gli eretici: ed è esattamente quello che è stato fatto non solo nella Santa Messa – orribilmente deturpata in nome dell’ecumenismo – ma anche nell’esposizione del dogma di documenti di contenuto dottrinale; il ricorso al subsistit in ne è chiarissimo esempio.

Si potrà forse discutere sui motivi che possono aver determinato questo evento unico e così gravido di conseguenze per la Chiesa; ma non possiamo più negare l’evidenza e fingere che il Vaticano II non sia qualcosa di diverso dal Vaticano I, nonostante gli eroici, numerosi e documentati tentativi, anche autorevolissimi, di interpretarlo a forza come un normale Concilio ecumenico. Una persona di buon senso vede già un’assurdità nel voler interpretare un Concilio, dal momento che esso è e deve essere norma chiara ed inequivocabile di Fede e di Morale. In secondo luogo, se un atto magisteriale pone dei seri e motivati argomenti di coerenza dottrinale con quelli che lo hanno preceduto, è evidente che la condanna del singolo punto eterodosso scredita in ogni caso l’intero documento. Se a ciò aggiungiamo che gli errori formulati o lasciati obliquamente intendere tra le righe non si limitano ad uno o due casi, e che agli errori affermati corrisponde una mole enorme di verità non ribadite, ci possiamo chiedere se sia doveroso espungere l’ultima assise dal catalogo dei Concili canonici. La sentenza sarà emessa dalla Storia e dal sensus fidei del popolo cristiano ancor prima che da un documento ufficiale. L’albero si giudica dai suoi frutti, e non basta parlare di primavera conciliare per nascondere il rigido inverno che attanaglia la Chiesa; né inventarsi preti sposati e diaconesse per rimediare al crollo delle vocazioni; né adattare il Vangelo alla mentalità moderna per raccogliere più consensi. La vita cristiana è una milizia, non una simpatica scampagnata, e questo vale a maggior ragione per la vita sacerdotale.

Concludo con una richiesta a quanti stanno proficuamente intervenendo nel dibattito sul Concilio: vorrei che cercassimo anzitutto di proclamare a tutti gli uomini la Verità salvifica, poiché da ciò dipende la loro e la nostra salvezza eterna; e che solo secondariamente ci occupassimo delle implicazioni canoniche e giuridiche poste dal Vaticano II: anathema sit o damnatio memoriae, cambia poco. Se davvero il Concilio non ha cambiato nulla della nostra Fede, prendiamo in mano il Catechismo di San Pio X, torniamo al Messale di San Pio V, rimaniamo dinanzi al Tabernacolo, non disertiamo il Confessionale, pratichiamo con spirito di riparazione la penitenza e la mortificazione. Da qui scaturisce l’eterna giovinezza dello Spirito. E soprattutto: facciamo in modo che a quel che predichiamo diano solida e coerente testimonianza le nostre opere.

 

+ Carlo Maria Viganò, arcivescovo

 

 

 

 

 

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