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Cannabis droga leggera? “No. Può causare danni cerebrali anche permanenti, specie nei giovani”

Il ricorso alla cannabis è sempre più diffuso e coinvolge molti giovani. Quali i pericoli? Davvero si tratta di una “droga leggera”? In proposito vi propongo un giudizio qualificato, spunto per molte riflessioni.

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L’imprinting della beat generation ha determinato la diffusione dell’idea – contraddetta dagli studi scientifici dagli anni’90 in poi – secondo cui la cannabis sarebbe una “droga leggera”, intendendo con questa espressione la capacità della sostanza di procurare dipendenza psichica e non fisica.

La cannabis è la droga più utilizzata al mondo: il 3,8% della popolazione mondiale, di età compresa tra i 15 e i 64 anni, ne hanno fatto uso almeno una volta nella vita. Secondo l’Osservatorio europeo delle droghe (Emcdda), 75,5 milioni di europei hanno usato cannabis una tantum, cioè circa il 20%. Il suo consumo si concentra prevalentemente tra i giovani adulti (15-34 anni). L’Emcdda ritiene che, tra questi, raggiunga livelli massimi nella fascia di età dei 15-24 anni. Pare, inoltre, che chi usa cannabis tra i 14 e i 24 anni in modo frequente continui a farlo anche in seguito. Lo studio Hbsc (Health Behaviour in School-aged Children), realizzato dall’Oms per esaminare lo stato di salute e gli stili di vita dei giovani in età scolare, mostra che l’uso di cannabis è più frequente nei maschi ed è tipico dei ragazzi vulnerabili, più comune, per esempio, tra i giovani che commettono reati e che abbandonano la scuola.

Recentemente, la Corte di Cassazione ha definito non punibile la coltivazione di cannabis per uso personale e il 25 giugno a Roma si è svolta la manifestazione “io coltivo” per promuoverne la legalizzazione. Ho deciso di parlarne con Giovanni Serpelloni, medico, già capo del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri e direttore dell’Anhpri (Addiction Neuroscience and Health Policy Research Institute).

Professore, a livello culturale ed educativo, questa decisione non può che trasmettere il messaggio che la cannabis non sia dannosa per la salute. Lei, insieme al suo team, invece ha dimostrato da tempo le possibili conseguenze soprattutto a lungo termine. Ci spiega quali sono?

Sono molti i messaggi contraddittori che da qualche anno continuano a essere dati ai nostri giovani, ma anche agli adulti, da varie istituzioni. La sottovalutazione – se non addirittura la negazione del rischio neuropsichico e comportamentale degli effetti della cannabis – è ormai imperante anche sui social. Le maggiori campagne di marketing dei produttori di cannabis, dove è stato reso legale il consumo, si basano proprio sul declamare gli effetti rilassanti e “benefici” della sostanza, ma è chiaro che la finalità è solo ed esclusivamente commerciale e di profitto economico.  La cannabis (soprattutto quella odierna che è potenziata) resta una sostanza, una droga, in grado di dare danni cerebrali anche permanenti soprattutto nel cervello dei giovani, che è costantemente in sviluppo fino all’età di 25-30 anni e che risulta particolarmente sensibile agli stimoli chimici esogeni. I principali effetti negativi (ormai ben conosciuti) sono: alterazione del senso della realtà e della percezione del pericolo, alterazione del coordinamento psicomotorio con di funzioni importante nella guida di auto e motoveicoli, diminuzione della motivazione ad affrontare e risolvere i problemi nella vita, calo delle capacità di memorizzazione e quindi dell’apprendimento, slatentizzazione di comportamenti aggressivi per effetto inibente del lobo prefrontale (area del controllo comportamentale). Se usata da prima dei diciotto anni, nel tempo può portare alla diminuzione del quoziente intellettivo. La pericolosità principale però sta nel fatto che si possono instaurare sindromi ansiose importanti fino alle crisi di panico e, come osservato da tutte le società scientifiche al mondo, incentivazione dello sviluppo di psicosi giovanili che possono facilmente cronicizzare.

A livello informativo la cannabis viene classificata come “droga leggera”. Lei condivide questa classificazione? Non crede che comunque possa essere una “droga ponte” per altre sostanze?

L’uso di cannabis è anche in forte relazione con un incremento dell’incidentalità stradale e dei comportamenti antisociali. Il suo uso continuativo è in grado di modificare la struttura cerebrale con processi negativi di neuroplasticità e down-regulation dei recettori CB1. Insomma, un ventaglio di conseguenze che non possono certamente farla ritenere una droga cosiddetta “leggera”. Di leggero qui c’è solo la superficialità di chi lo sostiene.

La cannabis è la droga in assoluto più utilizzata dagli adolescenti, che la considerano molto poco pericolosa. Alcuni di loro (circa il 20%) hanno delle caratteristiche neuropsichiche strutturali che li rendono soggetti molto vulnerabili a sviluppare un consumo cronico e quindi a diventarne dipendenti. Per queste persone spesso la strada non si ferma alla cannabis ma continua verso la ricerca e l’uso di droghe ancora più psicoattive (eroina, cocaina, amfetamine ecc.). In questi casi la cannabis (come peraltro l’alcol) rappresenta una droga ponte (effetto gate way). Cosa ben documentata dalle neuroscienze e dagli studi epidemiologici sui soggetti vulnerabili e anche questa spesso negata da chi ha interesse al solo commercio della sostanza.

Ci può spiegare che cos’è la cannabis light che veniva venduta nei coffee shop?

La cosiddetta cannabis light è un tipo di cannabis a basso contenuto di delta 9 THC (il principale principio attivo). È stata prodotta e commercializzata per aggirare la legge sugli stupefacenti dando origine a catene di negozi che però che però avevano ed hanno come loro intento nascosto quello di passare poi alla commercializzazione della cannabis potenziata una volta che la legalizzazione fosse stata approvata anche in Italia. Sia ben chiaro che questi negozi ora sono illegali. La cannabis light, oltretutto, non è affatto innocua perché circa 30 g possono contenere anche più di 15 mg di delta 9 THC. Sono ricerche che abbiamo personalmente fatto in varie città italiane. La dose cosiddetta “drogante” di principio attivo va dai 2-4 mg. Quindi siamo di fronte sicuramente a una sostanza non attiva come la cannabis standard ma in grado di produrre effetti psicoattivi (anche se minori). Prova ne sia anche che i test tossicologici su urine (quelli eseguiti anche dalla polizia stradale) in questi consumatori risultano comunque positivi. Chiaramente con tutte le conseguenze sul ritiro della patente e sequestro del mezzo.

Come si può fare prevenzione in famiglia e a scuola con gli adolescenti?

La prevenzione è fondamentale, ma non basta un semplice e banale (anche se necessario) intervento informativo sui danni delle sostanze sui giovani, magari fatto (come spesso succede) dopo i 14-15 anni. L’intervento deve essere fatto molto più precocemente a partire dai 4-5 anni di età e deve essere soprattutto orientato, non tanto in ambito informativo, ma ad identificare quei disturbi dell’attenzione e del comportamento che caratterizzano i fattori di vulnerabilità di queste persone che stanno alla base dello sviluppo nel tempo della tossicodipendenza. Tutto questo per intervenire, quindi, con supporti educativi costanti già in giovanissima età al fine di renderli più forti e preparati a controllare i propri comportamenti, a riconoscere i rischi e ad evitarli quando saranno adolescenti. L’approccio che abbiamo studiato in questi anni soprattutto negli Usa e che in Italia non ha ancora preso piede (spesso sostituito con interventi del tutto autoreferenziali e tardivi), si definisce di early detection e cioè della scoperta precoce delle condizioni di vulnerabilità con conseguente supporto alla famiglia e alla scuola per instaurare modelli educativi precoci ed efficaci.

La famiglia e gli educatori in generale devono essere preparati a riconoscere precocemente questi condizioni di rischio e i servizi pubblici dovrebbero obbligatoriamente avere programmi e percorsi specifici per sostenere ed attivare queste strategie. Cosa che purtroppo non c’è ancora, in quanto manca una cultura scientifica e un approccio alle neuroscienze del comportamento ben sviluppate su questi temi sia nei servizi pubblici sia nella scuola. Molto spesso infatti, le famiglie, fin dalla primissima età dei loro figli, sono lasciate sole a gestire problemi comportamentali dei loro figli vulnerabili, veramente difficili ed angoscianti, per poi dover affrontare in adolescenza anche problemi di droga e di alcol. Le resistenze al cambiamento sono tante sia all’interno dei servizi sanitari che nella scuola, ma la speranza è che le nuove generazioni di operatori sanitari, insegnanti, presidi e genitori, si rendano presto conto che ciò che le neuroscienze hanno scoperto in questi anni può essere veramente utile per loro al fine di ridurre il rischio droga e le sofferenze (e a volte anche i lutti) delle famiglie con questo problema.

Giorgia Brambilla*

*Docente stabile presso l’Ateneo pontificio Regina Apostolorum e incaricato presso la Pontificia Università Lateranense

Fonte: Il blog di Sabino Paciolla

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