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San Giuseppe, un modello

di don Alberto Strumia

Come possiamo accostarci alla figura di san Giuseppe, del quale celebriamo la memoria liturgica? Vi invito a leggere o a rileggere, “assorbendola”, l’esortazione apostolica di san Giovanni Paolo II Redemptoris custos, dedicata a san Giuseppe, dalla quale estrarremo qui alcuni spunti di riflessione.

Un modello

In questo testo troviamo la parola “modello” («san Giuseppe è un modello», nn. 21 e seg.), come l’abbiamo appena tracciata: «Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti» (n. 24). Modello vuol dire che “per analogia” noi possiamo fare in certa misura come lui, nella diversità della nostra condizione e vocazione. In che modo Giuseppe è un “modello”, ovvero una esemplificazione di un “metodo” nel vivere la fede? È un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo”. Anche lui, insieme a Maria, si è trovato coinvolto direttamente a partecipare all’Incarnazione del Verbo.

1 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso la paternità legale

«La sua paternità si è espressa concretamente “nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia [come padre anagrafico di Gesù], per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro» (n. 8).

Lui in una maniera “unica” e non “delegabile” come padre anagrafico, “legale” (“putativo”) di Gesù, presso la società degli uomini.

Noi (parafrasando) nel fare della nostra vita un sacrificio, un servizio al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’usare dell’autorità legale [la paternità è anche legale, sociale, civilizzatrice e non solo biologica], che a noi spetta sulla nostra vita e la nostra famiglia, per farle totale dono di noi stessi, della nostra vita, del nostro lavoro. La legalità sancisce la dimensione pubblica dell’affidamento del “deposito da custodire” che ci viene assegnato come sposi, genitori o sacerdoti.

2 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso il lavoro

Da Giuseppe possiamo imparare a lavorare come collaboratori attivi del Creatore («L’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore», Laborem exercens, n. 25) e del Redentore («Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità», Laborem exercens, n. 27), per la parte che ci è affidata e ci compete in modo unico e irripetibile. La Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe lavoratore, fissata al primo maggio. Giuseppe nel Vangelo è un “carpentiere”, un lavoratore.

3 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere sposo di Maria

Se in Maria la partecipazione all’incarnazione del Verbo, e quindi al piano della Redenzione, è addirittura anche biologica, fisica, corporea, oltre che esistenziale, spirituale (al punto di meritare il titolo di “corredentrice”), in Giuseppe la stessa partecipazione avviene nel prenderla come sposa, rendendo possibile per lei – come per lui – una vocazione familiare, nel rispetto totale della sua verginità, alla quale anche lui viene chiamato. «Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret “partecipò” come nessun’altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre “ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,5)» (Redemptoris custos, n. 1).

«Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione» (n. 19).

Nella vita, quando si è così legati, la vocazione dell’uno diviene vocazione dell’altro. C’è una vocazione ad essere genitori di un figlio che si consacra a Dio; c’è una vocazione ad essere sposo di colui che si lega alla sposa e reciprocamente; c’è una vocazione ad essere genitori di un figlio o una figlia che non scegli a modo tuo, ma ricevi in dono da Dio, e c’è una vocazione ad essere figli dei nostri genitori. Per questo non ha senso fare le cose in provetta!

«Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell’Annunciazione» (n. 4).

4 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere custode del mistero dell’Incarnazione racchiuso nella Sacra Famiglia e nella Santa Chiesa.

«Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero “nascosto da secoli nella mente di Dio” (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria» (n. 5).

«Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario» (n. 5).

«Si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione» (n. 5).

Il sostegno è reciproco: «Il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. È per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe […] passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia» (n. 7); «“glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei” [Leone XIII, Quamquam Pluries]» (n. 20).

Gli sposi partecipano l’uno alla vocazione dell’altro: l’uno è coinvolto in ciò che l’altro è chiamato da Dio, ad essere: provate, coloro che di voi sono sposati, a pensarvi così e a regolarvi così nel vostro modo di trattarvi, di parlarvi, di stimarvi. Il matrimonio cristiano è l’incontro tra due fedi nello stesso Signore Gesù Cristo, che viene custodito come un figlio in casa propria dagli sposi e come l’Eucaristia dai sacerdoti.

Se si impara a questa scuola di vita, in casa, si trattano di conseguenza in modo più vero anche quelli che sono fuori di casa, al lavoro, nella comunità ecclesiale e nel mondo.

Non a caso Giuseppe, “custode della Sacra Famiglia”, è stato dichiarato anche “custode e patrono della Chiesa”, che della Sacra Famiglia è l’estensione lungo la storia.

«Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò “Patrono della Chiesa cattolica” [Quemadmodum Deus]» (n. 28).

«Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia… È dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo” [Leone XIII, Quamquam Pluries]» (n. 28).

E custodendo la Chiesa, la rende custode del “deposito della fede”. Il “deposito” è qualcosa da custodire, che gli altri non sanno quanto sia prezioso e non devono rovinare, ma essere aiutati ad ammirare come un tesoro e ad imparare a conoscere per imparare a viverne.

5 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere uomo “giusto”

«Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche “assunto” tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche “assunta” la paternità umana di Giuseppe» (n. 21).

In un primo momento «“Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto” (Mt 1,19)»; ma «quest’uomo “giusto” che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore [di sposo]» (n. 19) per compiere un opera di “giustizia” più grande di quella di un sposo ordinario – come aveva immaginato – ed essere collaboratore della Redenzione di Cristo, cioè della restituzione della “giustizia” perduta dal genere umano con il peccato di origine. Per questo «“Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa” [Mt 1,24]» (n. 19).

«Ciò che egli fece è purissima “obbedienza della fede”» (n. 4).

Il fondamento di una vita familiare e sacerdotale serena risiede in questa obbedienza intelligente e affezionata a Cristo pensato permanentemente come parte della propria casa. In una casa cristiana, non si ragiona senza di Lui. È un’obbedienza condivisa ciò che regge per tutta la vita un matrimonio così come ogni vocazione di consacrazione a Dio.

6 – Un modello di “partecipazione all’incarnazione del Verbo” attraverso l’essere uomo “silenzioso” che “agisce”. Di Giuseppe i Vangeli non riportano una sola parola, presentandolo come uomo del “silenzio” e nel contempo “operoso”. Un uomo dell’ora et labora (per dirlo con una formula benedettina più tardiva).

«I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe “fece”; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue “azioni”, avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero “nascosto da secoli”, che “prese dimora” sotto il tetto di casa sua» (n. 25).

Vorrei concludere con le parole di Benedetto XVI, a proposito del silenzio di Giuseppe.

«Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal “padre” Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell’autentica giustizia, la “giustizia superiore”, che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli (cfr Mt 5,20).

Lasciamoci “contagiare” dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. […] Coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita» (Angelus, domenica 18 dicembre 2005).

Fonte: albertostrumia.itvideo YouTube

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