L’uomo al posto di Dio. Così la salvezza è diventata un diritto da rivendicare

di The Wanderer

Roger Scruton, nel suo libro Essere conservatore, dedica un capitolo alla descrizione dell’assurda società contemporanea in cui ognuno si considera degno di innumerevoli diritti senza alcun fondamento se non il proprio egoismo, capriccio o patologia. Negli ultimi anni queste rivendicazioni sono diventate un fenomeno travolgente, impossibile da fermare, anche quando si parla dei “diritti” più insensati. Una persona con gravi problemi di ritardo o immaturità intellettuale ha diritto di andare all’università, e guai al professore che la boccia, perché su di lui cadrà l’accusa di aver infranto le norme istituzionali contro la discriminazione, senza contare il linciaggio mediatico, e non sarebbe strano se perdesse il suo lavoro. Un uomo nato uomo ha il diritto di percepirsi come donna e avere un documento di identità che lo attesti. Ma non solo: ha anche il diritto di giocare per la squadra di hockey femminile del suo club o di cantare come soprano al Teatro Colón. Inoltre, c’è già chi ha scoperto, oltre alla propria identità femminile, anche di avere una vocazione alla vita religiosa… come suora. Per ora la Chiesa gli ha detto di no, ma non sappiamo fino a che punto possa arrivare la misericordia di papa Francesco.

Da alcuni decenni questa situazione si è persino insinuata nella Chiesa: le donne hanno iniziato a rivendicare i loro diritti di essere chierichette e poi di essere diaconesse, e in Germania minacciano di ordinarle sacerdotesse. I separati che hanno ricostruito la loro vita con altri partner hanno il diritto di partecipare alla vita sacramentale e le coppie omosessuali di essere unite in matrimonio o, almeno, di ricevere una benedizione nuziale. Siamo di fronte al completo collasso non solo dell’ordine naturale, ma anche del più elementare buon senso.

Ma c’è un altro diritto che viene rivendicato anche negli ambienti religiosi con grande forza, sia pure in modo più discreto: il diritto universale alla salvezza, perché sembra che tutti gli uomini abbiano diritto a essere salvati e niente e nessuno – nemmeno san Pietro – può negare loro l’ingresso in paradiso. Dio commetterebbe un flagrante atto di discriminazione se negasse la felicità eterna a un uomo per non essere stato battezzato, o per aver condotto una vita sessualmente disordinata, o per non aver partecipato al culto della Chiesa, o per aver infranto uno qualsiasi dei dieci comandamenti.

Nelle piazze si grida a gran voce la frase evangelica: “Le prostitute vi precederanno nel Regno dei Cieli”, ma senza chiarire, naturalmente, che si tratta di prostitute pentite, come quella che lavò i piedi del Signore con le sue lacrime, e che nel Regno precederanno i farisei, quelli che nascondevano dietro le loro ampollosità religiose il marciume di un sepolcro. La pretesa è, in definitiva, una sorta di apocatastasi di bassa qualità, un’apocatastasi a buon mercato o squallida, che farebbe infuriare Origene.

Il problema, a mio avviso, viene da lontano e nasce dall’infondato ottimismo che permeò gran parte del cattolicesimo militante pre e post conciliare, secondo il quale instaurare omnia in Christo significava semplicemente che tutte le società dovevano essere, e sarebbero state, profondamente cristiane come lo erano una volta. Ma la verità è che non lo sono mai state e non lo saranno mai perché, in poche parole, il vero cristianesimo, e non la mera patina culturale, è per un piccolo gruppo. Almeno questa è l’idea del cardinale Newman, che io condivido.

Newman afferma che la missione del cristiano “è spendere e spendersi con i tanti chiamati, per il bene dei pochi eletti”. Prosegue sottolineando il fatto che non ci è mai stato assicurato che la Chiesa avrebbe avuto successo nel cuore delle folle, e osserva che, al di là degli innegabili successi raggiunti nel corso della sua storia millenaria, “la maggior parte degli uomini non è, dal punto di vista spirituale, migliore di prima. Lo stato delle grandi città oggi non è molto diverso da quello che era un tempo; o almeno non così diverso da sembrare che l’opera principale del cristianesimo sia stata quella di influenzare il volto visibile della società, o quello che chiamiamo il mondo”. Questo lo diceva nel 1836. E poi: “La conoscenza del Vangelo, dunque, ha cambiato, dal punto di vista materiale, solo la superficie delle cose; il Vangelo ha mondato l’esterno ma, per quanto possiamo giudicare, non ha agito su larga scala sullo spirito interiore, su quel ‘cuore’ da cui provengono le cose che ‘rendono impuro’ l’uomo”. E afferma che il trionfo del Vangelo è avvenuto solo in un piccolo gruppo, e consiste nell’ “elevare al di sopra di se stessi e della natura umana coloro – qualsivoglia sia il loro rango o qualità di vita – la cui volontà collabora misteriosamente con la grazia di Dio; coloro che, quando Dio li visita, temono e obbediscono sinceramente a Dio, qualunque sia la misteriosa ragione per cui un uomo obbedisce e un altro no”. Potremmo dire che il Vangelo è per tutti, ma non tutti sono per il Vangelo, semplicemente perché non tutti – e non sappiamo perché – sono capaci di seguirlo. Sebbene il Seminatore semini per tutti, non tutto il seme cade su un terreno solido e fertile. Molti sono i semi, ma pochi sono scelti perché portino frutto e lo diano in abbondanza.

E come caveat per coloro che vengono presi dalla militanza gesuitica, Newman avverte: “Anche se lavorassimo senza vacillare, nella speranza di convincere coloro che la pensano diversamente, non potremmo mai revocare la testimonianza di nostro Salvatore e fare che i fedeli siano molti e pochi i cattivi. Possiamo solo fare ciò che deve essere fatto. Con il nostro duro lavoro possiamo raggiungere solo coloro per i quali ci sono corone preparate in Cielo. ‘Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati’ (Romani 8,29). Non possiamo distruggere le differenze che separano un uomo dall’altro. E attribuire a un difetto del battesimo, della predicazione e di altri ministeri il fatto che non sia possibile andare oltre i limiti che la parola di Dio ha predetto, è irragionevole come cercare di far sì che lo spirito di un uomo sia uguale a quello di un altro”.

Nostro Signore nel suo Vangelo e tutta la Rivelazione divina indicano una realtà che è sempre stata difficile da capire, e ancor di più nella situazione attuale: la Salvezza è offerta a tutti, ma non tutti la accolgono. Il Sangue di Cristo è stato versato per molti, ma non per tutti gli uomini, perché gli eletti sono pochi, solo un piccolo gruppo tra tutti i chiamati. E che queste parole piacciano o meno queste parole, e sembrino più o meno inadeguate all’orecchio contemporaneo, la verità è che sono lì e non è possibile togliere neanche una iota.

Sia detta la verità: coloro che recentemente hanno incoraggiato questa idea di “salvezza per tutti” non erano solo Hans Küng o von Balthasar. Fu Giovanni Paolo II, con il sentimentalismo proprio della filosofia personalista a cui aderiva, a dire che l’inferno non è “un luogo”, ma “la situazione di chi si allontana da Dio”, seguendo i gesuiti i quali affermano che l’inferno riguarda “uno stato dell’anima, un modo di essere della persona in cui soffre la pena della privazione di Dio”. Inoltre, e non potrebbe essere altrimenti, l’acuta teologia peronista di papa Francesco ci ha detto che coloro che non si pentono dei loro peccati “non sono puniti. Coloro che si pentono ottengono il perdono di Dio, ma quelli che non si pentono e non possono essere perdonati scompaiono. L’inferno non esiste, esiste la scomparsa delle anime peccatrici”. Ma se l’inferno come “stato” non esiste, il paradiso è necessariamente per tutti. In definitiva, la salvezza è un diritto.

[I testi di Newman si riferiscono a Parochial and Plain Sermons vol. 4, Sermone 10, 20 novembre 1836]

Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com

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