Il Vaticano soffre di claustrofobia? Analisi di due documenti problematici
Cari amici di Duc in altum, prendendo spunto dal mio libro Claustrofobia. La vita contemplativa e le sue (d)istruzioni (Chorabooks, 2019), nel quale esamino criticamente la costituzione apostolica Vultum Dei quaerere e l’istruzione applicativa Cor orans, monsignor Héctor Aguer, arcivescovo emerito di La Plata in Argentina, si occupa a sua volta dei due documenti vaticani sottolineandone luci e ombre. La differenza tra il mio testo e quello dell’arcivescovo sta tutta nel punto di domanda che Aguer ha aggiunto. Un contributo comunque prezioso, quello del monsignore, perché affronta un tema tanto trascurato quanto importante. Sappiamo bene, infatti, che attaccare la vita contemplativa significa portare un attacco al cuore stesso della fede. Ecco dunque il saggio dell’arcivescovo, con un grazie alle collaboratrici che hanno lavorato alla traduzione.
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Claustrofobia?
di monsignor Héctor Aguer
Il titolo di questo articolo riproduce, aggiungendo il punto interrogativo, quello di un libro del giornalista italiano Aldo Maria Valli: Claustrofobia. La vita contemplativa e le sue (d)istruzioni. In quest’opera egli denuncia “l’attacco condotto dai vertici della Congregazione che si occupa dei religiosi…a quel gioiello di spiritualità che sono i monasteri di clausura”. Ritiene la gerarchia cattolica responsabile di questo attacco e afferma che esso ha la sua fonte nella costituzione apostolica Vultum Dei quaerere e nell’istruzione applicativa Cor orans. Secondo la sua interpretazione, “è stato messo in moto un apparato normativo che minaccia l’autonomia dei monasteri e, con la scusa del rinnovamento e della formazione, si mette in discussione l’idea stessa di isolamento e di vita claustrale”. Ritiene che il fondamento si trovi in “una spiritualità totalmente orizzontale, completamente radicata nel sociale, incapace di discernere la bellezza e la grandezza di un rapporto esclusivo con Dio”. L’autore segnala “lo slogan che raccomanda ossessivamente di evitare l’isolamento”, e scopre in questa inclinazione la volontà di creare un nuovo monachesimo), in cui tutte le monache siano poste sotto la stessa forma di aggiornamento [in italiano nel testo, ndt] e indottrinamento, fino a quando le regole della vita non cambieranno”. Si parla di monache perché i documenti citati trattano di monasteri di clausura femminili, e le loro disposizioni si riferiscono ad essi. Valli, inoltre, denuncia che “lo sterminio silenzioso del monachesimo” si estende, oltre la dimensione spirituale e culturale, all’ordine materiale attraverso il controllo dei beni dei monasteri.
Cosa pensare di questi eventi insoliti e della severa invettiva contro la condotta romana della vita monastica?
Appare opportuna e utile, a mo’ di proemio, un’esposizione sommaria della dottrina tradizionale sul rapporto tra vita contemplativa e vita attiva, che trova le sue radici evangeliche nel confronto della figura di Marta con quella della sorella Maria (cfr. 10, 38 ss.). Marta era premurosamente impegnata (perispâto) nei molteplici compiti della casa, indaffarata, per servire Gesù; Maria, invece, seduta ai piedi del Signore, ascoltava (ēkouen) la sua parola. La prima, infastidita, protesta non capendo quell’atteggiamento passivo, e Gesù benevolmente le fa vedere che si perde in molte cose. I termini riportati dall’evangelista sono molto eloquenti: il verbo merimnáo significa inquietarsi, essere preoccupato; thorybéo si riferisce all’essere turbato, agitato, sconcertato, perdere la testa; in altre parole, Marta ha smarrito il fulcro dell’attenzione e si è dedicata con ansia a ciò che non dura, anche con le migliori intenzioni. Maria ha scelto la parte migliore (tēn agathēn merída), la più nobile e propizia, che non perderà mai; è la contemplazione, l’inizio e l’assaggio dell’eternità. Soeren Kierkegaard ha scritto nel suo Esercizio del cristianesimo: “L’assoluto consiste solo nello scegliere l’eternità”. Attraverso il lavoro servizievole possiamo ottenere la vita eterna, ma con la contemplazione essa è anticipata e goduta.
La tradizione teologica patristica ha ampiamente sviluppato questi concetti, che trovano mirabile espressione nei mistici di tutte le epoche e negli scritti dei grandi riformatori della vita religiosa. È impossibile, nei limiti di un articolo, raccogliere molte di quelle esatte e belle formulazioni, che sono state esposte scolasticamente nei trattati classici di teologia ascetica e mistica e in quelli che si riferiscono alla perfezione cristiana. Bastino i seguenti riferimenti a san Tommaso d’Aquino, che certo non possono essere esaustivi. L’insigne Dottore della Chiesa sintetizza: ogni azione umana è ordinata alla contemplazione come suo fine, poiché «la conoscenza di Dio è il fine ultimo di ogni conoscenza e operazione umana» (Summa contra Gentiles, L. III, cap. 25, Articolo). Afferma inoltre che al riposo della contemplazione si accede più facilmente nella consacrazione religiosa che nello stato secolare (Quodl. 4, 23 c, 16 m). Le radici di questa convinzione affondano in una sana antropologia, poi confermata dal Vangelo. Il Dottore Angelico assume le otto ragioni che Aristotele presenta nella sua Etica nicomachea (Libro X, capitoli 7 e 8) e le sviluppa nel suo commento a quel testo, nelle lezioni 10, 11 e 12. L’affermazione generale è così formulata: “La vita contemplativa è in assoluto (simpliciter) migliore di quella attiva». Include anche queste argomentazioni confrontando entrambe nella Summa Theologica (II-II q. 182, 1c); la prima delle due forme di vita è più divina (tò theiótaton) diceva già Aristotele; è la migliore attività (enérgia) perché è un esercizio dell’anima e può persistere oltre la morte poiché non si tratta di lavoro sul corpo. Segue la spiegazione delle motivazioni:
1 – Conviene all’uomo secondo ciò che è ottimale in lui, cioè l’intelletto (ho noûs) e gli oggetti che gli sono propri (tón gnóstón, intelligibilia) che sono le realtà spirituali, dell’ordine intelligibile; invece, la vita attiva si occupa di realtà esteriori.
2 – La vita contemplativa ha maggiore continuità, è synejestáte, sebbene in questa condizione non si verifichi il grado supremo della contemplazione, che è una vetta in cui non si può rimanere senza limiti.
3 – In essa c’è maggior delizia, dolcezza, ricreazione, contentezza, gusto speciale (hédoné, delectatio). Sant’Agostino ricorreva a figure evangeliche classiche per l’interpretazione: Marta divenne irrequieta (turbabatur), mentre Maria si godette un banchetto (epulabatur) come ospite.
4 – Nella vita contemplativa, l’uomo è più autosufficiente (è sibi sufficiens, ha autárkeia, autarky) Tommaso cita qui il rimprovero di Gesù: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose”; cioè dipende da loro (Lc. 10,41).
5 – La vita contemplativa è apprezzata per sé stessa, è un fine degno di essere amato, mentre la vita attiva è ordinata ad un altro scopo (di autén agaspásthai, magis propter se diligitur). È pertinente qui la citazione del Salmo 26,4: “Una cosa ho chiesto al Signore questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario“. Si esprime così un’ineffabile esperienza di Dio.
6- La vita contemplativa consiste in una vocatio certa; Aristotele chiama questa dimensione sjolé, ozio. Che non è oziosità, pigrizia, accidia, ma tregua dal peso del lavoro, occupazione studiosa nelle realtà spirituali, tempo che si può disporre liberamente; equivale a libertà. San Tommaso cita il Salmo 45,9: “Venite a contemplare le opere del Signore” (versione italiana: “Venite, vedete le opere del Signore”, ndt); nel testo ebraico del salmo si legge jadzá, e con quella stessa radice si dice jodzé, colui che contempla ciò che Dio gli ha rivelato e proprio per questo è un vate, un profeta.
7 – La vita contemplativa si riferisce alle realtà divine; la attiva, alle cose umane. Secondo Aristotele, “una tale vita sarebbe troppo eccellente per l’uomo; in quanto uomo non vivrebbe in questa maniera, se non in quanto c’è in lui qualcosa di divino (theîon). Agostino commenta: Maria udiva “in principio era il Verbo”; Marta serviva il Verbo fatto carne (cfr Gv 1, 1,14).
8 – Questo motivo riprende il primo. Siamo nell’etica aristotelica: “Ciò che è proprio di ciascuno per natura è anche il più eccellente e più piacevole per lui”. Questa è la vita secondo lo spirito, l’ordine dell’intelligenza e della saggezza (ho katá tòn noûn bíos), è la fonte della maggior felicità (eudaimonrestetos).
Lo Stagirita si riferiva alla theoria o contemplazione filosofica, a una sapienza umana (sophia); san Tommaso alla contemplazione cristiana di Dio, opera della grazia e del suo dinamismo soprannaturale, fede e carità, arricchite dai doni della sapienza e dell’intelletto, che assume e supera quelle disposizioni naturali. Per questo aggiunge un nono motivo tratto dai personaggi evangelici di Marta e María, che, come è stato più volte sottolineato, sono le figure assunte dalla tradizione per esemplificare la vita attiva e contemplativa. Agostino sottolineava che Marta non era cattiva, che non era quello lo squilibrio del confronto.
Fin dagli inizi del monachesimo cenobitico, la cella, il chiostro, sono stati i luoghi corrispondenti all’abbandono del mondo per abbandonarsi a Dio nella contemplazione. In quell’ambito, solitudine e fraternità hanno sempre cercato di armonizzarsi. Il Concilio Vaticano II decise allora di promuovere un rinnovamento (renovatio) che fosse anzitutto spirituale, ma inteso come “adattamento alle mutate condizioni dei tempi” (optimas accomodationes ad necessitates temporis nostri, Decreto Perfectae caritatis, 2 e). Questa idea è ripetuta più volte nel testo conciliare: “come consigliano i nostri tempi”, “nelle circostanze del tempo presente”, “alla luce delle circostanze del mondo presente”, “le migliori soluzioni alle esigenze del nostro tempo”, “eliminando le disposizioni obsolete” , “fare leggi su un adeguato rinnovamento”, “per un adeguato rinnovamento dei monasteri di monache”, “si deve rivedere il loro stile di vita (si riferisce agli istituti puramente contemplativi)”, “il loro adeguato rinnovamento”, “l’adattamento della vita religiosa alle esigenze del nostro tempo “,”che adeguino le loro vite alle esigenze attuali”, “si adegui alle circostanze dei tempi e dei luoghi” (l’abito); “adeguarsi alle circostanze di tempo e di luogo” (la clausura delle suore). Se non ho contato male, sono ventuno le volte in cui si esprime il concetto! Mi viene in mente di introdurre qui una modesta digressione biblica: una frase di san Paolo (Rm 12,2). Le traduzioni variano leggermente, ma il significato è univoco: “non prendete a modello questo mondo”, “non conformarsi a questo secolo”, “non seguite la corrente del mondo in cui viviamo”. Il testo greco dice: mē synschēmatizesthe tō aiōni toutō; aiōn (eón) equivale a «tempo presente», «questa età» o «questa generazione»; il verbo greco sysjematídzo significa «conformarsi», «modellarsi», «assumere quella posizione (sjéma, schema) di conformità. Nella vulgata latina si legge: nolite conformari huic saeculo. Nel suo classico commento, M.J. Lagrange sottolinea: non adottare i modi di questo mondo, per loro natura sono di quanto più fugace ci sia, poiché seguono la moda, qualcosa di obsoleto e imperfetto. Questo tempo che passa non ha una forma solida, è uno schema (sjéma), molto lontano dalla forma (morphé) di Cristo. Il motivo lo sottolinea l’Apostolo in 1 Cor. 7, 31: perché la figura di questo mondo passa (paragei gar to schēma tou kosmou toutou); di nuovo: sjéma è la figura esteriore, l’apparenza che non dura. Non c’è nulla che risulti più velocemente obsoleto di un adattamento; se si percorre quella strada, si è costretti ad adattarsi o ad accomodarsi incessantemente. Il rinnovamento (renovatio) è un’altra cosa, è trasformazione interiore, conversione (metamorphoûste, Rom 12, 2). Forse in questa proposta sta la chiave della crisi postconciliare. Il parametro che identifica la realtà cristiana è guardare, scegliere l’eternità; l’aggiornamento si esaurisce nel giorno (aggiornamento e giorno in italiano nel testo, ndt).
Il Decreto Perfectae caritatis contiene ovviamente molti elementi tipici della tradizione della Chiesa riguardo alle varie forme di vita religiosa. Non potrebbe essere altrimenti, ma colpisce quel ripetuto appello all’aggiornamento, inchiodato mezzo secolo fa nel Corpo della Chiesa e che ha raggiunto la forza di una vera ossessione. È anche sconcertante che in nessun momento venga detto quali siano quelle “esigenze dei tempi”. Per quanto in modo “adeguato” sia stato voluto il rinnovamento, è innegabile che sulla scia di un presunto “spirito conciliare” siano stati commessi numerosi oltraggi che hanno danneggiato l’identità della vita religiosa. Sotto questo aspetto, come in generale per tutta la vita della Chiesa, si addice la dolorosa affermazione di san Paolo VI: un inverno rigido s’impose sull’attesa fioritura primaverile, e attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio.
Il principio di ogni aggiornamento adeguato è stato espresso già nel V secolo da saint Vincent de Lerins: è l’omogeneità nello sviluppo della dottrina e delle istituzioni ecclesiali: in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia; l’identità è preservata, inalterata. Lo stesso padre della Chiesa deplorava le novità del linguaggio, che considerava più tipiche degli eretici che dei cattolici. Il cardinale Robert Sarah, già prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, che ha analizzato a fondo la crisi attuale, segnala che tra le sue tante componenti c’è quella di «una visione orizzontale della Chiesa, che inevitabilmente porta al desiderio di allineare le sue strutture con quelle delle società politiche. È questa la tendenza delle recenti normative sui monasteri femminili di clausura?
Non posso condividere il processo alle intenzioni che Valli fa nel suo libro. Quello che credo di poter fare, con il massimo rispetto, con libertà di spirito e, naturalmente, non senza timor errandi, è presentare alcune osservazioni che mi suggerisce la lettura della Costituzione apostolica e dell’Istruzione applicativa.
Il testo pontificio contiene una sezione eloquente che esprime, con entusiasmo e affetto, “Stima, lode e rendimento di grazie per la vita consacrata e la vita contemplativa monastica”. Questo riconoscimento è molto importante e prezioso. Da anni conosco capi della Chiesa, vescovi, che non capiscono il senso di una vita dedicata esclusivamente alla contemplazione, nella stabilità della clausura. Un dettaglio: le sbarre li spaventano, per esempio. È una carenza attualissima, con profili ideologici. Pensano che le monache dovrebbero uscire di tanto in tanto per ricrearsi e svolgere qualche attività, come se non si ricreassero – con tanta fraterna gioia – e non lavorassero – e quanto! – all’interno del monastero, oltre a ricevere visite e ospiti che desiderano trascorrere alcuni giorni di ritiro e crescere nella vita interiore. Allo stesso tempo, quelle stesse persone a cui alludo, nel caso dei sacerdoti diocesani, oppongono studio e pastorale. L’esclusiva dedizione allo studio, alla pubblicazione del frutto del proprio lavoro e dell’insegnamento, non sarebbe “pastorale”. In virtù di questo pregiudizio, i contributi intellettuali, la sapienza e il servizio educativo di sacerdoti illustri sono implicitamente squalificati, la preparazione dei giovani sacerdoti a continuare il loro lavoro è ostacolata e la formazione dei seminaristi ne soffre.
Nella citata sezione si sottolinea, soprattutto, che la scelta di una vita dedicata alla ricerca del volto di Dio pone le monache “nel cuore del mondo”, “nel cuore della Chiesa e del mondo”. Ricordo come santa Teresa di Gesù Bambino definisse la sua vocazione: “Nel cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’amore”. Alcune formulazioni richiamano l’attenzione, ad esempio, al n. 1 il paragrafo in cui si assume il n. 169 dell’enciclica Evangelii gaudium: la dinamica della ricerca impone di percorrere la strada alla luce della fede, da un esodo del proprio io centrato su sé stesso, attratto dal volto del Dio santo, e al tempo stesso dalla “terra sacra dell’altro”. Si cita anche Perfectae caritatis, 2, dove si parla della fedeltà a Cristo, al Vangelo, al proprio carisma, alla Chiesa, all’uomo di oggi
Cosa significa questo ultimo capitolo della fedeltà? Non sarà stata, ogni epoca, fedele all’uomo di quell’epoca? Questi sono – si dice – criteri irrinunciabili per il rinnovamento; sarebbe utile una spiegazione dell’ultimo dei criteri elencati. Il n. 8 della Costituzione apostolica espone una giustificazione della necessità di promulgarla: “L’intenso e fecondo cammino percorso dalla Chiesa negli ultimi decenni, alla luce degli insegnamenti dello stesso Concilio e considerate le mutate condizioni socio-culturali”. Si fa anche menzione del “rapido progresso della storia umana” con cui “è opportuno intessere un dialogo”. Mancherebbe, a mio avviso, un riferimento alla crisi postconciliare che, come hanno sottolineato voci più autorevoli delle mie, si estende ai giorni che stiamo vivendo, nonostante tutte le istanze di correzione e rimedi, che non sono mancate né mancano. Il riferimento alla crisi è più che pertinente in questo caso: quanti conventi di suore sono scomparsi negli ultimi cinque decenni? Quanti nuovi sono stati fondati? Quanti hanno visto la propria adesione ridotta a un numero irrisorio? Con i tempi che corrono, in alcune regioni, i conventi maschili continuano ad essere decimati.
D’altro canto, mi sembra che l’insistenza sull’aggiornamento dovrebbe tener conto dell’influenza preponderante della laicità nella cultura attuale, da cui san Giovanni Paolo II metteva in guardia nell’enciclica Tertio millennio adveniente, dove affermava che il confronto con lui era un impegno ineludibile e principale. Allo stesso modo, Benedetto XVI ha chiarito che la laicità “si manifesta da tempo all’interno della stessa Chiesa”.
Nella descrizione degli elementi essenziali della vita contemplativa si contano parecchie ripetizioni. Alcune espressioni sono molto piacevoli, altre nuove, per esempio: “La vita consacrata è una storia di amore appassionato per il Signore e per l’umanità: nella vita contemplativa questa storia si dipana, giorno dopo giorno, attraverso l’appassionata ricerca del volto di Dio”. Se ricordiamo santa Caterina da Siena, l’aggettivo non sembra inopportuno, ma visto che non siamo nel XIV secolo potremmo chiederci: si sta pensando in termini mistici o psicologici? La passione mistica può essere interpretata come sensualità? Alcuni autori l’hanno sostenuto. Altro giusto riferimento è l’esempio della Vergine Madre, detta summa contemplatrix (titolo attribuito da Dionigi il Certosino): “Il contemplativo è la persona centrata in Dio, è colui per il quale Dio è l’unum necessarium”.
Il testo pontificio mette in guardia da varie tentazioni che possono essere insinuate, tra cui spiccano l’apatia, la routine, la mancanza di motivazione, la pigrizia paralizzante, la psicologia tombale “che a poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo”; questa espressione familiare, curiosa in un testo normativo della massima autorità ecclesiale, è ripresa anche dalla Evangelii gaudium. Viene descritta molto bene, senza nominarla, l’accidia, che san Tommaso studia nella Summa tra i vizi opposti alla gioia della carità (II-II q. 35): una tristezza che deprime lo spirito, gli impedisce di fare il bene, una specie di torpore spirituale; è peccato veniale – dice l’Angelico – se colpisce solo la sensibilità, poiché la carne ripugna allo spirito, ma mortale quando raggiunge l’anima, che “consente la fuga, l’orrore e la stagione del bene divino, perché la carne prevale totalmente sullo spirito” (art 2 c). Di più è un vizio capitale (a. 4c), seguito da disperazione, pusillanimità, indolenza per adempiere ai precetti, rancore, malizia, vagabondaggio tra cose illecite (ib. Ad 2 m). Una buona cautela è quella di mettere in guardia contro questa tentazione. Il cardinale Sarah, nel suo libro Si fa sera e il giorno ormai volge al declino, dedica un capitolo a questo problema, che collega alla crisi di identità nella Chiesa.
La Costituzione indica dodici “Temi oggetto di discernimento e di revisione dispositiva”. Sottolineo solo l’osservazione esatta, di radice biblica, che “anche oggi, come allora, possiamo pensare che le sorti dell’umanità si decidono nel cuore orante e nelle braccia alzate delle contemplative “, ma resto perplesso quando si postula “una spiritualità che vi faccia diventare figlie del cielo e figlie della terra”. Penso: come avrebbero inteso questa etichetta san Benedetto, prima ancora di un altro padre del monachesimo orientale e occidentale; san Bernardo e santa Teresa di Gesù, così vagabonda lei? In tema di autonomia del monastero, segnala l’indicazione a preservarsi “dalla malattia dell’autoreferenzialità”, perché prepara quanto brevemente detto al n. 30 sulle Federazioni, presentate come strutture importanti affinché i monasteri “non rimangano isolati”. Questo punto è ampiamente sviluppato nelle Norme generali e nel capitolo 2 dell’Istruzione Cor orans. Molto bene quanto si dice circa l’ascesi: “L’ascesi, con tutti i mezzi che la Chiesa propone per il dominio di sé e la purificazione del cuore, porta anche a liberarci da tutto quello che è proprio della “mondanità”. Solo questa ottima prudenza andrebbe abbinata – se possibile senza incoerenza – a tante iniziative di adeguamento all’attualità che si sono moltiplicate dal Decreto conciliare Perfectae caritatis e che potrebbero essere sospettate di mondanità. Sottolineo anche l’accenno al significato profetico della vita di dedizione, il valore della stabilità e l’esigenza delle relazioni fraterne nella comunità claustrale. Non ritengo invece molto felice l’iniziativa di favorire l’associazione, anche legale, dei monasteri con il corrispondente ordine maschile – che in molti casi può essere fatale -, e la creazione di confederazioni e commissioni internazionali di vari ordini, soprattutto se queste strutture avranno un qualche potere di decisionale. Inutile investimento di tempo, viaggi e denaro. La Chiesa è, del resto, una comunione, anzitutto di carattere spirituale e soprannaturale, è l’amicizia divino-umana dell’ágapé nel cuore di Cristo; la proiezione della stessa al livello dell’organizzazione istituzionale dovrebbe evitare – mi sembra – il banale trabocchetto di somigliare all’Onu o ad altre strutture simili.
Desidero ora commentare il capitolo II dell’Istruzione Cor orans, emanata dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in applicazione della Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere.
Le Norme generali fanno già riferimento agli organismi da creare: federazioni di monasteri, associazioni, conferenze, confederazioni, commissioni internazionali, congregazioni monastiche (n.7-12). L’intenzione espressa è che “i monasteri federati superino l’isolamento”. Ossessione che porta alla fabbricazione di un’enorme burocrazia con i costi – come ho già indicato – di tempo, viaggi, distrazioni e denaro.
Il secondo capitolo inizia determinando la natura e lo scopo delle federazioni, “perché monasteri che condividono il medesimo carisma non rimangano isolati” e per promuovere la vita contemplativa. In linea di principio, l’incorporazione in questi organismi è obbligatoria per tutti i monasteri, sebbene fortunatamente sia lasciata aperta la possibilità di un’eccezione: “Un monastero, per cause oggettive e motivate, con il voto del capitolo conventuale può chiedere alla Santa Sede di non appartenere più ad una Federazione”. Saranno molti i monasteri che lo richiederanno? Sarà concessa l’eccezione? Le Federazioni possono formare tra di loro una Confederazione, “per dare indirizzo unitario ed un certo coordinamento all’attività delle singole Federazioni “. Si tratta di unificare sotto una voce di comando, con il potere economico, la formazione di suore e altri scopi. Ci saranno un Consiglio federale, un’Assemblea, un presidente e un tesoriere federale. La presidente sarà co-visitatore con il visitatore abituale; la sorveglianza è perfettamente organizzata: lei “vigila particolarmente sulla formazione iniziale e permanente nei monasteri”, ed è chiamata “ad esigere la partecipazione di quante esercitano il servizio della formazione”. Viene da chiedersi: questa uniformità di formazione deve riferirsi alla cura della dottrina della fede e ai caratteri essenziali della vita contemplativa claustrale, o all’imposizione di un pensiero unico estraneo alla grande tradizione ecclesiale e, come si suol dire, scusandomi per la parola, progressista? Il parlamentarismo dell’organizzazione si esprime nei lavori del Consiglio federale, eletto dall’Assemblea federale; questo assume le funzioni del Consiglio del monastero autonomo che, per affiliazione, “è affidato alla presidente della Federazione nel processo di accompagnamento per la rivitalizzazione o per la soppressione del monastero”. Eufemismi. Tralascio di richiamare le numerose norme sul “compito di tutelare tra i monasteri federati il patrimonio carismatico dell’Istituto” e di “promuovere un adeguato rinnovamento”. Monitorare, tutelare, dare una direzione unitaria; tutti i monasteri del mondo sono virtualmente coinvolti. Si stabiliscono “professioni federali”: tesoriere, segretario, formatore.
Il terzo capitolo di Cor orans contiene sviluppi esatti, corretti, sulla separazione dal mondo e della di vita di clausura. Tuttavia, non posso tralasciare di pensare, con una certa perplessità, le conseguenze che potrà avere la mobilitazione richiesta da parte dell’organizzazione, sebbene ora disponiamo di risorse informatiche che possono sostituire in parte i viaggi e riunioni con presenza. È vero che le circostanze storiche e culturali sono cambiate molto e rapidamente, ma la questione è con quale spirito si è cercato di tenerne debitamente conto e riflettere quell’evoluzione nella vita monastica senza alterarne l’essenza. Mi è sospetto, come ho già detto, e ribadisco, quell’ossessione di evitare l’autoreferenzialità, e il presunto “isolamento” dei monasteri; che portando al tentativo di imporre strutture che sono, tutto sommato, mondane.
Per concludere, mi viene in mente che sarebbe possibile tracciare un’analogia tra il tipo di organizzazione che si vuole fornire alla vita dei monasteri e la struttura delle Conferenze episcopali. Queste sono state pensate come organismi di comunione, e mezzi per dare unità ed efficacia al ministero apostolico dei vescovi. Inoltre, le conferenze sono raggruppate in organizzazioni comprensive (Celam, ad esempio, o altre similari presenti in altri continenti). La mia esperienza di venticinque anni nell’episcopato (come emerito non sono più membro della Conferenza episcopale) mi invita a interrogarmi: è questo il miglior tipo di organizzazione? Troviamo una diversa fondazione delineata alla fine del I secolo, o all’inizio del successivo, nelle lettere di sant’Ignazio di Antiochia, che prende forma nella tradizione antica più tarda. Secondo il discepolo dell’apostolo Giovanni, la Chiesa sono le chiese particolari, nelle quali il vescovo rappresenta Dio Padre, il presbiterio il collegio degli apostoli e i diaconi rappresentano Gesù Cristo. La Chiesa romana è quella che presiede all’ágapé, mistero della comunione ecclesiale; questa è una primitiva affermazione del suo primato. Successivamente l’organizzazione si concretizza nelle province ecclesiastiche, presiedute dal metropolita. Questa realtà, inerente alla Chiesa, è stata offuscata dalla recente creazione di regioni pastorali che, secondo la mia esperienza in Argentina, sono ambienti molto piacevoli per l’incontro fraterno, ma inefficaci nell’ordine pastorale. La Conferenza episcopale è un parlamento in cui il pastore diocesano è democraticamente assorbito in un insieme, in cui la sua voce e il suo voto sono spesso frustrati da decisioni che non può condividere. Ci sono esempi di confusione sia storici che attuali: ricordiamo l’opposizione di varie Conferenze episcopali all’enciclica Humanae vitae tradendae, di san Paolo VI, e le pretese anticattoliche della Conferenza episcopale tedesca, nella riunione populista del suo sinodo, le cui eccessive aspirazioni non sappiamo ancora come andranno a finire. Tornando alla mia esperienza di vita, devo ricordare, con indifferenza o dispiacere, dichiarazioni discorsive a uso dei giornalisti su temi di attualità sociali e politici. Solo di tanto in tanto viene redatto e pubblicato un sostanziale documento sulle questioni religiose e una diagnosi veritiera sull’influenza della cultura laica e scristianizzata sulla fede dei fedeli. Sembra aleggiare il timore di denunciare errori e segnalare il pericolo della paganizzazione di moltissimi battezzati.
Forse si potrebbe ricreare un’altra organizzazione, di taglio più tradizionale: le diocesi articolate nelle province ecclesiastiche e l’Assemblea dei metropoliti di ogni nazione. È un’ipotesi. Qualcuno può giustamente pensare che una proposta del genere sia una follia. Lo è soprattutto se si considera irreversibile una mentalità e un’organizzazione consolidata, che concepisce una visione aggiornata della Chiesa che soprattutto mette in guardia sui cambiamenti climatici, la deforestazione, il pericolo della proliferazione delle armi nucleari, la violazione dei diritti umani e le ingiustizie sociali; temi indubbiamente imprescindibili della nostra dottrina sociale. Ma quale posto diamo al comando chiarissimo del Signore riportato alla fine dei Vangeli di Matteo e Marco, che indica altre priorità, sempre più urgenti in un mondo che ha spodestato Dio? Le parole di invio pronunciate da Gesù indirizzano la missione degli apostoli a tutti i popoli – panta ta ethnē, Mt 28, 19 – per farli discepoli, cristiani, battezzarli e insegnare loro ad adempiere i comandamenti che Egli ha stabilito. Sono inviati in tutto l’universo – eis ton kosmon apanta, Mc 16,15 – per annunciare il Vangelo a tutte le creature, pasē tē ktisei. Con l’anticipazione del possibile esito: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,16). Il caso è grave, si tratta di der Ernstfall, cui fa riferimento Hans Urs von Balthasar, nel suo libro Cordula ovvero sia il caso autentico. Certamente, il tenore dell’invio non fu: “Tutti gli uomini sono cristiani anonimi – Rahner dixit – rendete la loro vita in questo mondo migliore e più felice”.
+ Héctor Aguer, arcivescovo emerito di La Plata
Titolo originale: ¿Claustrofobia? ¿Qué pensar de estos hechos insólitos y de la severa invectiva contra la conducción romana de la vida monástica?
Fonte: infocatolica.com
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Cari amici di Duc in altum, è disponibile il mio nuovo libro: La trave e la pagliuzza. Essere cattolici “hic et nunc” (Chorabooks).
Uno sguardo sulla situazione della Chiesa cattolica e della fede. Senza evitare gli aspetti più controversi e tenendo conto dell’orizzonte dei nostri giorni, segnato dalla vicenda del Covid. Un diario di viaggio in una realtà caratterizzata da profonde divisioni, ma con la volontà di costruire, non di distruggere. E sapendo che il processo di conversione riguarda tutti, a partire da se stessi.
Il volume prende in esame questioni disparate (dal Concilio Vaticano II al pontificato di Francesco, dalla vita spirituale in regime di lockdown alle vicende vaticane, dal great reset alle questioni bioetiche) ma con un filo conduttore: l’amore per la Chiesa e la Tradizione, unito a una denuncia chiara sia delle derive moderniste sia delle nuove forme di dispotismo che limitano o negano le libertà fondamentali.
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