Lettera ad Aurelio Porfiri sulla guerra asimmetrica del partigiano

Caro Aurelio,

la tua idea del “passare al bosco”, che io ho ripreso e sulla quale mi sono messo a riflettere (prendendo ispirazione non solo da Der Waldgang di Jünger, ma anche da Courage. Manuel de guérilla culturelle di Bousquet), mi ha procurato qualche critica: ma allora, mi è stato detto, tu teorizzi l’uscita dalla Chiesa!

Nient’affatto. Ne sono più che mai convinto: extra Ecclesiam nulla salus. Ed è proprio perché ne sono tanto convinto che ho così a cuore la Chiesa. Se non me ne importasse nulla, non starei qui ad angustiarmi.

“Passare al bosco” nel mio caso non significa abbandonare la Chiesa. È invece un atteggiamento culturale, per cui tutto ciò che viene dai vertici della Chiesa attuale, dominata da un umanitarismo che si confonde con quello massonico, va decisamente denunciato, rifiutato e confutato. Da “pastori” che parlano come le Nazioni Unite, sono paladini del politically correct e sposano tutte le teorie del Nuovo Ordine Mondiale non può venire nulla di buono per l’anima. Anzi, sì, qualcosa può venire: la certezza che per essere buoni cattolici basta non seguirli.

Schopenhauer (L’arte di insultare) parla degli uomini come di “orologi che vengono caricati e camminano senza sapere perché”. La definizione si può applicare anche ai cattolici che seguono pedissequamente quei pastori che in realtà sono lupi: si lasciano caricare e camminano. Il che, proprio, non mi va.

Passare al bosco è cambiare prospettiva. Passare al bosco è prendere le distanze dall’istituzione deviata, è recuperare uno spazio di analisi e di studio scevro dagli slogan del pastoralismo e dalle parole d’ordine elaborate a tavolino dai burocrati del sacro. Passare al bosco è tornare a coltivare la Parola in compagnia dei santi e dei veri (pochi) pastori. È vivere la fede come combattimento, rifiutando le zuccherose visioni tutte peace and love; è mettere al primo posto Dio e il culto degno, evitando le false liturgie antropocentriche; è essenzialità; è parlare secondo il “sì sì, no no”; è far coincidere l’essere e l’agire; è concepire l’educazione alla fede come elevazione verso Dio e compimento in Dio della propria umanità, non come accoglienza, apertura, sinodalidà eccetera.

Per passare al bosco occorre andare oltre ciò che viene di solito dipinto come “ragionevole”. Vuol dire affidarsi totalmente a Dio e non agli uomini. E vuol dire giudicare.

Chi sono io per giudicare? Sono un battezzato, un cattolico, un figlio della Chiesa, un soldato di Cristo. E dal bosco giudico molto meglio. Sono un cattolico, non sono un seguace della filosofia scettica. Desidero la salvezza dell’anima, non l’imperturbabilità dello spirito. La sospensione del giudizio è già tradimento.

Passare al bosco richiede coraggio. Non quello alla moda, ostentato nei gay pride dagli stanchi ripetitori della provocazione a comando. È il coraggio vero, che ti spinge a fare scelte totalmente contrarie a quelle dominanti nel mondo. Un andare controcorrente per il quale il mondo ritiene che tu sia o un pazzo fanatico o un povero ritardato.

Certo, se vuoi essere cattolico e, allo stesso tempo, accedere ai salotti buoni, se vuoi proclamarti figlio della Chiesa e, allo stesso tempo, andare a braccetto con “i Torquemada transgender, le Robespierre femministe, i Vyshinsky panafricani” (tutte definizioni di François Bousquet nel suo Coraggio! Manuale di guerriglia culturale), significa che non sei proprio tipo da bosco.

Se vuoi essere cattolico (fides et ratio) e allo stesso tempo vuoi aderire al pensiero magico imperante (che si spaccia per scientifico ma è, caso mai, scientista o, peggio, è mera superstizione) non sei tipo da bosco.

Se quando parli di gregge pensi non alle pecorelle del Signore ma ai montoni di Panurgo che si gettano in mare (rileggere il racconto di Rabelais) non sei tipo da bosco.

Se per te le carte dell’Onu contano più dei Dieci comandamenti, non sei tipo da bosco.

Se per te l’idea di comunità è più importante dell’idea di identità, non sei tipo da bosco.

Se ignori che la cosiddetta società inclusiva funziona soltanto a prezzo della puntuale esclusione di qualcuno, non sei tipo da bosco.

Se credi non al diritto-dovere di dire la verità, ma alla produzione della parola autorizzata, non sei tipo da bosco.

Ho già detto che nel bosco va il ribelle, il guerrigliero. Ci va anche il partigiano. Nel senso letterale della parola: colui che prende una parte, una posizione. E lo fa in modo radicale. Senza sconti.

Per stare nel mondo occorre spesso barcamenarsi. Nel bosco si può diventare guerriglieri culturali, fare contro-informazione, proporre una contro-narrativa. Senza subire pressioni e ricatti.

Vale per la cultura, vale in politica, vale anche nella Chiesa. I falsi pastori, con i loro atenei, le loro accademie, i loro istituti, i loro convegni e i loro mass media, restano spiazzati di fronte al guerrigliero culturale che combatte la sua guerra asimmetrica.

All’interno di un popolo smembrato, piccole unità mobili (mi rifaccio ancora a Bousquet) possono ridare coraggio ai dispersi e colpire i falsi pastori smascherandoli.

Il guerrigliero sconfigge il nemico combattendo da irregolare. Fuori da ogni ambito istituzionale.

Bousquet annota che Davide perde due volte su tre quando adottata la strategia di Golia (guerra convenzionale), mentre vince due volte su tre quando la rifiuta (guerra asimmetrica).

Il segreto della vittoria del piccolo contro il grande? Destabilizzare, sbugiardare.

Occorre usare quella che i greci chiamavano métis: l’intelligenza dell’astuzia. Il partigiano non adotta schemi geometrici e quindi prevedibili.

Mobilità e celerità sono caratteristiche decisive (Carl Schmitt, Teoria del partigiano). Nel bosco non si è più legati a questioni di opportunità o di cautela come quando si stava nel centro abitato (su una cattedra universitaria, nella redazione di un giornale). Sbaglia chi pensa di poter combattere dal bosco replicando le forme istituzionali. Il partigiano, l’irregolare, è furtivo, ingegnoso, veloce, fantasioso. Utilizza le caratteristiche del terreno a suo favore.

Coraggioso e nobile d’animo, il partigiano attira i giovani migliori. Mentre l’istituzione perde terreno e attira gli omuncoli, il bosco accoglie le anime belle. Nella clandestinità si formano anime virili. Valorose, risolute, forti. E nascono amicizie.

L’identitario non ha nostalgia del passato: recupera le origini per costruire il presente e il futuro. L’identitario è sempre giovane, anche da vecchio. È non solo sentinella, ma risvegliatore.

Ti dicono “tradizionalista”? Bene, non c’è complimento migliore. La tradizione è vivificata dal sacrificio. Ci si sacrifica per ciò che conta.

Nel bosco non si può fingere. Le priorità risaltano. L’essere prevale sull’avere e sull’apparire. La dedizione è totale. La confusione di fuori non riesce a condizionarti. Nel bosco coltivi l’unico distanziamento che conta: quello dalla menzogna e dall’ipocrisia.

Ti dicono: sei marginale. Ottimo. È un vanto. Le tue note a margine, frutto di riflessione originale, alimentano la resistenza identitaria contro chi vuole omologarti.

Nel bosco la parola ritrova il suo spessore. La battaglia culturale è in larga parte battaglia linguistica, e nel bosco, nello studio degli autori amati e alla larga dalla lingua di legno dell’ideologia, ritrovi il gusto di comunicare con gli amici.

Riprendo da Bousquet, e adatto al caso nostro, ancora qualche spunto. L’etica militante del partigiano non prevede nostalgie né deleghe. Tocca a noi dare valore ai nostri mezzi. Non c’è bisogno di essere molti: occorre essere grandi. Ed esigenti.  I guardiani del pensiero puntano su mediocrità, bassezza, bruttezza. Nel bosco si punta alla grandezza, alla nobiltà, alla bellezza. Dobbiamo ordinare noi stessi. A fronte di un’autorità deviata, noi ignoriamo i suoi ordini e ordiniamo noi stessi. Al soprannaturale. A Dio.

 

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