La paura: da occasione di controllo sociale a introduzione alla società dell’odio

di don Marco Begato

Una delle categorie utili per interpretare i mesi che stiamo attraversando è quella della paura. L’uso della paura come elemento capace di condizionare e controllare il movimento della massa e della cultura è un fenomeno non nuovo e certo sembra una prospettiva particolarmente pertinente nello stato attuale della situazione. In tale orizzonte reputo utile rileggere le suggestioni di alcuni autori recenti, che un decennio fa hanno ragionato attorno alla questione della paura. Oggi farò riferimento ad alcuni passaggi di Paura liquida (Z. Bauman, Laterza, Bari 2009).

Bauman, esattamente dieci anni prima che scoppiasse la crisi epidemiologica, descriveva la società come uno scenario di tensioni in equilibrio precario: “La vita liquido-moderna viene vissuta come su un campo di battaglia… Tutte le vittorie liquido moderne sono, lo ripeto, temporanee. La sicurezza che offrono non sopravviverà all’attuale equilibrio di forze” (p.63) Uno scenario pericolante nel quale peraltro si aggira uno spettro, “lo spettro dell’esclusione, della morte metaforica” (Ibidem). Dove la morte viene intesa non come mero evento, bensì come strumento fruibile in termini tecnico-pratici, cioè come “una risorsa naturale disponibile all’infinito e totalmente rinnovabile” (p. 67), da sfruttare per manipolare e abbindolare gli animi dell’uomo moderno. Il che poi è possibile per il fatto che “la generazione meglio equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza” (p. 126). Una generazione che, non avendo altre risorse interiori cui attingere, si specializza nell’affrontare i problemi in modo procedurale, senza possedere pienamente le chiavi della situazione e quindi trovandosi costretta a focalizzarsi “su cose su cui possiamo, o crediamo di potere, o ci assicurano che possiamo, esercitare una qualche influenza” (p. 178).

È il ritratto di una fragilità sociale destinata a soccombere alle leggi del più forte, bisognosa di una redenzione valoriale di cui però non si dà annuncio. Un palcoscenico di eventi che, a parere di Bauman, ha portato i potenti di ieri a disporre uno scacchiere di emergenze, utili ad intrattenere le folle e a lasciare indisturbati i super-ricchi. Leggiamo passim le riflessioni del compianto sociologo:

“Bush dichiara guerra al terrorismo e promette che sarà lunga (alcuni suoi più stretti collaboratori sono ancora più schietti e avvertono che non finirà mai). Se i proletari verranno distratti dalla loro propria disperazione grazie a pseudo-eventi creati dai media, comprese a volte occasionali guerre, e tanto brevi quanto sanguinose, i super-ricchi avranno poco da temere… Nota Max Hastings: “l’arma più potente degli abbienti è la globalizzazione… È facile spostare altrove il contante e persino se stessi. Sapendolo, pochi governi nazionali sono disposti ad attaccare i conti in banca di chi crea ricchezza, rischiando di allontanarlo … Soltanto un collasso del sistema finanziario su scale senza precedenti potrebbe minacciare la sicurezza dei ricchi…” … Chi fa parte dell’élite globale dei super-ricchi può trovarsi ora in questo posto e ora in quel posto, ama mai e in nessun luogo è di quel posto lì” (p. 198).

Quanto attuale sia il riferimento a pericoli inarrestabili, per certi versi destinati a non finire mai, e che mettono in questione ogni aspetto della vita comune, eccezion fatta per la carriera del sistema egemone, lo lascio stabilire al lettore.

Ma la lezione di Bauman porta luce in modo interessante su altre dinamiche di dominio della paura, che hanno tristi echi con l’esperienza degli ultimi semestri di governo mondiale.

Cifra costante della società delle paure è l’evolversi della compagine sociale da luogo di benessere a fonte di ansia – “complessivamente i rapporti umani cessano di essere ambiti di certezza, tranquillità e benessere spirituale, per diventare una fonte prolifica di ansie” (p. 88) – in un gorgo di pressioni che, lungi dal risolvere i problemi, tende a distribuire sentimenti di apprensione a ogni livello dell’esistenza civile – “la guerra moderna alle paure umane, sia essa rivolta contro i disastri di origine naturale o artificiale, sembra avere come esito la redistribuzione sociale delle paure, anziché la loro riduzione quantitativa” (p. 102). Emblematico il caso della lotta al terrorismo, circa la quale Bauman ci aiuta a notare che “il risultato più evidente della campagna antiterroristica fu il rapido aumento quantitativo della paura che impregnava l’intera società. Per quanto riguarda i terroristi, bersaglio dichiarato della campagna, essa li portò più vicini al raggiungimento del loro scopo (ossia, minare le fondamenta dei valori che tenevano in piedi la democrazia e il rispetto dei diritti umani) di quanto avrebbero mai potuto sognare altrimenti” (p. 192).

Un ulteriore risultato della lotta al terrorismo è stato il sacrificio delle libertà:

“Un altro abbondante sottoprodotto di questa guerra sono state le limitazioni imposte alle libertà personali, alcune delle quali mai viste dall’epoca della Magna Charta. Conor Gearty, professore di diritti umani alla London School of Economics, ha stilato un lungo inventario di provvedimenti restrittivi delle libertà… La magistratura britannica si è finora trovata d’accordo con la linea del governo secondo cui non esistono alternative alla repressione e così, conclude Gearty, soltanto gli idealisti liberali e altre brave persone altrettanto illuse possono aspettarsi che il potere giudiziario si ponga alla guida della società per difendere le libertà civili in questo periodo di crisi” (p. 188-189).

Ancora una volta, quindi, incontriamo un pattern già presentato nelle mie riflessioni precedenti: la preesistenza di nodi spinosi che oggidì si sono manifestati con enfasi, ma la cui azione era già evidente nei lustri trascorsi. Ugualmente, il tema della libertà ci mostra che il Covid, lungi dal generare problemi nuovi, ha esasperato e reso strutturali tematiche che fino a poco tempo fa avevamo in qualche forma trascurato, ma che i grandi autori avevano già ampiamente denunciate e definite.

Dall’illiberalità alla pura oppressione il passo è breve, ma soprattutto il collegamento è – politicamente parlando – per sé intrinseco e connaturale:

“Secondo Michail Bachtin il momento costitutivo di tutti i poteri terreni è dato dalla violenza, repressione, menzogna e dall’ansia e paura dei sudditi… Batchin tendeva a interpretare lo stretto collegamento tra il dominio dello Stato e l’ansia e paura dei sudditi solamente, o quasi, come paura dei sudditi nei confronti dello Stato… Quel terrore nasceva dal carattere casuale, capriccioso e apparentemente privo di logica del modo in cui gli Stati totalitari praticavano l’esenzione dalla legge – che è altrimenti prerogativa universale (secondo Carl Schmitt definitoria) di tutti i poteri sovrani. Lo Stato totalitario era temuto come fonte di ignoto e di imprevedibile” (p. 194).

Ecco dipinto l’itinerario utile a proiettare i popoli in un contesto di insicurezza, preda di allarmismi che giustificano un’ennesima sottrazione di libertà. Il tutto apre al più classico tentativo di dominio tramite la paura, però propagandato come forma di salvazione e, perché no, atto di carità utile al bene comune: “Persino nei regimi comunisti, comunque, i poteri statali cercano di presentarsi ai loro sudditi oppressi come salvatori piuttosto che come principale fonte di terrore” (p. 195).

Fin qui Bauman in riferimento agli eventi del suo tempo. Inutile dire quanti aspetti collimino con le più recenti espressioni del governo e della propaganda contemporanea. Voglio evitare purtuttavia di sentenziare e mi limito a rilanciare il monito sempre valido: se anche il momento che stiamo attraversando mostrasse solo vaghi richiami con i paradigmi del potere, della tirannide, dell’illiberalità su menzionati, dovremmo stare ben attenti, perché è un attimo passare dal vago richiamo all’attuazione atroce. Chiunque poi si rifiuti di riconoscere questo fragile confine, dovrà render conto della propria inspienza e imprudenza al tribunale della coscienza e della storia. Questa è la mia tesi.

Bauman non si è rifiutato di denunciare un simile rischio e alcune sue considerazioni lo dimostrano, fornendoci il monito prezioso e conclusivo per la riflessione odierna.

In primo luogo il sociologo ebreo-polacco non ha avuto timore tanto di nominare il rischio di un ritorno a forme totalitarie e disumane, quanto di precisare che le società sono destinate ad esserne sopraffatte: “Sappiamo ora che intere società possono arrendersi, in un modo o nell’altro, agli Hitler, e sappiamo anche che capiremo che si sono arrese soltanto se vivremo abbastanza a lungo da scoprirlo: ossia se sopravviveremo alla loro resa. Non ci accorgeremo del montare e allargarsi della corrente, proprio come non ci siamo accorti che si stava formando l’onda dello tsunami” (p. 81).

Secondariamente, al nostro non sfugge che il vero problema non sarà il rischio di trovarsi nuovamente perseguitati da qualche regime di governo, quanto quello di vederci facilmente schierati tra gli aguzzini e gli esecutori di aberrazioni. Aggiungo: chi se ne reputa esente, sarà probabilmente il primo da cui dovremo guardarci: “La lezione più devastante di Auschwitz, dei gulag e di Hiroshima non è che potremmo anche noi essere rinchiusi dietro il filo spinato o nelle camere a gas, ma che, date le giuste condizioni, potremmo stare di guardia o spruzzare nelle condutture cristalli di sale bianchi” (p. 84).

Ora, prima di concludere, andremo a riconoscere con Bauman quali sono le due pseudo-virtù utili a preparare la restaurazione di certi regimi. Curiosamente esse si identificano con l’obbedienza e l’individualismo.

Da un lato una burocratizzazione dei rapporti che chiede di abbandonare i codici classici del giudizio morale, per sostituirli con forme di obbedienza e inquadramento supino al sistema – laico o clericale che sia: “La burocrazia esigeva la conformità alla regola, non il giudizio morale. La moralità del funzionario era anzi ridefinita come obbedienza all’ordine e volontà di svolgere bene il compito comandato – quali che ne fossero la natura e l’impatto sui destinatari dell’azione burocratica. La burocrazia era un congegno asservito al compito della dequalificazione etica” (p. 110).

Dall’altro un feroce individualismo – prova lampante che il bene comune tanto invocato, altro non è se non la designazione del sistema burocratico nella neolingua – capace di sovvertire le più banali norme di convivenza ed effettiva tutela reciproca, sacrificandole alla massimizzazione della salvaguardia personale, il tutto non senza lo scudo delle opportune retoriche pseudo-comunitarie: “Castel sostiene che la società moderna è stata costruita sulle sabbie mobili della contingenza, poiché al posto delle comunità e corporazioni fittamente intrecciate che un tempo definivano le regole di protezione e i relativi diritti e obblighi e ne monitoravano l’osservanza, è subentrato un dovere individuale di attenzione, interesse, amore e cura per se stessi” (p. 164).

E così siamo avvisati, ancora una volta abbiamo incontrato un autore di indubbia fama e riconoscimento che in tempi del tutto non sospetti ha saputo fornirci un arsenale di strumenti concettuali utile a interpretare i tempi moderni. Invito tutti i lettori a fare il debito ricorso a tali sussidi concettuali. Le riflessioni di Bauman ci guideranno in una interpretazione non grossolana e non vigliacca della crisi in cui ora siamo immersi. Per quale ragione poi questi grandi pensatori, imprescindibili fino a ieri, non dovrebbero invece essere validi riferimenti nell’analisi della problematica epidemiologica è un mistero che sa di oscurantismo dogmatico.

Termino qui. Ma prima lascio un allarme, sul quale spero di poter tornare a riflettere con voi. La società della paura è preludio della società dell’odio. Quanto più dunque in questo periodo ci siamo addentrati nel gorgo della paura, tanto più dovremo temere e guardarci dal riflusso dell’odio che ne conseguirà.

Fonte: vanthuanobservatory.org

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