IL PESCE PICCOLO. UNA STORIA DI VIRUS E SEGRETI

Il pesce piccolo. Una storia di virus, segreti e omertà

In inglese c’è una parola, whistleblower, che in italiano non ha un immediato corrispettivo. Letteralmente il whistleblower è il soffiatore di fischietto. Immagine che sta a indicare chi, lavorando all’interno di un’organizzazione, di un’azienda pubblica o privata, si trova a essere testimone di un comportamento irregolare, illegale, potenzialmente dannoso per la collettività, e decide di segnalarlo all’interno dell’azienda stessa o all’autorità giudiziaria o all’attenzione dei media, così da porre fine a quel comportamento. Secondo l’Accademia della Crusca, il fatto che in italiano manchi un termine corrispondente è significativo: è il riflesso linguistico della mancanza, nel nostro contesto socio-culturale, di un riconoscimento stabile del ruolo al quale la parola fa riferimento.

Parlando di alcuni whistleblower che si sono occupati del Covid da un punto di vista alternativo alla narrativa dominante, e purtroppo sono morti, un sito di lingua inglese cita gli italiani Domenico Biscardi e Giuseppe De Donno, accomunando la loro sorte a quella del tedesco Andrea Noack e dell’americana Brandy Vaughan.

L’argomento è delicato. Sulla sorte di queste persone ci sono numerose zone d’ombra, né so se Biscardi e De Donno possano essere considerati veri e propri whistleblower. Di certo, noi un whistleblower autentico l’abbiamo e fortunatamente è vivo e vegeto. Parliamo di Francesco Zambon, medico specializzato in sanità pubblica che dal 2008 al 2021 ha lavorato nella sede di Venezia per l’Organizzazione mondiale della sanità e si è dimesso dopo aver realizzato un rapporto, sconfessato dall’Oms, nel quale rivelava che il piano pandemico italiano non veniva aggiornato dal 2006 e quindi era del tutto inadeguato ad affrontare la situazione venuta a determinarsi con l’arrivo e la diffusione del coronavirus cinese.

Sulla sua vicenda Francesco Zambon ha scritto un libro, Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti (Feltrinelli, 192 pagine, 15 euro) che mostra molto bene come l’Oms, a dispetto dei proclami e delle regole interne, non sia affatto indipendente e trasparente, e anzi possa arrivare a censurare la verità.

Il pregio del libro di Zambon è di portare il lettore all’interno dell’Oms, questa grande organizzazione mondiale che è spesso sulla bocca di tutti ma di cui in effetti sappiamo poco, specie per quanto riguarda il modo in cui prende le decisioni, destinate poi ad avere effetti su milioni e milioni di persone in ogni parte del globo.

Il documento realizzato da Zambon e dai suoi collaboratori nel marzo-aprile 2020, e poi censurato dall’Oms, aveva l’obiettivo di illustrare come l’Italia stesse affrontando l’inizio della pandemia, così da fornire indicazioni ai paesi che ancora non erano stati travolti dal Covid. Il rapporto però aveva un “peccato originale”: dimostrava che l’Italia, in quella primavera del 2020, stava fronteggiando il virus con un piano pandemico vecchio, risalente al 2006 e mai aggiornato. Di qui le pressioni ricevute da Zambon per modificare il testo del rapporto, pressioni alle quali Zambon non volle cedere, riuscendo a diffondere il documento on line. Ma quel testo ebbe vita brevissima, solo una ventina di ore, perché, con il pretesto di procedere a una correzione, l’Oms lo ritirò e non lo fece mai più riapparire.

L’Oms ha diversi organi di controllo, tra i quali un ufficio di etica, e Zambon segnalò immediatamente di aver ricevuto pressioni interne, con il coinvolgimento dei piani alti e altissimi dell’organizzazione, per modificare la parte di testo sgradita al governo italiano, ma il medico non ebbe alcuna risposta. Passarono sette mesi e la vicenda venne fuori perché se ne occupò il giornale inglese The Guardian. Solo allora l’Oms rispose, parlando tuttavia genericamente, e falsamente, di “errori” contenuti nel rapporto.

Ma perché le dimissioni di Zambon? Il medico nel libro lo dice chiaramente: perché a suo giudizio l’Oms ha tradito i valori fondanti dell’ente (trasparenza e indipendenza) e anziché prendere le difese dei suoi funzionari onesti ha deciso di fatto di insabbiare, così da non disturbare il governo italiano colto in fallo. Di qui, al costo della rinuncia a un contratto a tempo indeterminato e a una posizione di prestigio, la decisione di Zambon: uscire dall’organizzazione e diventare, appunto, un whistleblower.

La conclusione di Zambon è drastica: l’Oms non è oggi l’ente di cui il mondo avrebbe bisogno. E non lo è non solo per la vicenda di cui, suo malgrado, il medico è stato protagonista, ma per problemi strutturali, a partire dal finanziamento, che dipende solo per il venti per cento dai contributi obbligatori degli Stati, mentre per il restante ottanta per cento l’organizzazione vive grazie a risorse provenienti da enti e organismi, tra i quali alcune grandi fondazioni come la Bill & Melinda Gates Foundation, che contribuisce per il dodici per cento del budget Oms.

Il medico italiano dice che rifarebbe tutto ciò che ha fatto, ma non nasconde una certa delusione: immaginava che le sue dimissioni e il suo diventare un whistleblower avrebbero suscitato una forte reazione in Italia. Invece, nonostante la solidarietà ricevuta da singoli cittadini, Zambon ha dovuto rilevare il silenzio delle istituzioni. Ha prevalso il clima omertoso. E forse anche questa storia spiega perché in italiano non c’è un equivalente del termine whistleblower.

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