Riforma della Curia romana e paradossi ecclesiologici

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Il 19 marzo papa Francesco, con la costituzione apostolica Praedicate evangelium, ha compiuto una radicale riorganizzazione della Curia romana, forse la più profonda dai tempi di Sisto V. Il testo legislativo in questione è stato poi presentato il 21 marzo dal cardinal Semeraro, insieme a monsignor Mellino (attuale segretario del Consiglio dei cardinali) e al gesuita padre Ghirlanda, noto canonista.

La famosa riforma della Curia, annunciata dall’inizio del pontificato di papa Francesco, sembra essere arrivata al suo traguardo, almeno quanto alla riorganizzazione degli organismi che la compongono. In attesa di un esame più profondo dei princìpi dottrinali del testo, meritano immediata attenzione alcuni aspetti, e il corto circuito teologico messo (involontariamente) in luce da padre Ghirlanda.

La storia della Curia

Le congregazioni romane furono volute nel 1588 da Sisto V (anche se la Sacra congregazione dell’Inquisizione, il Sant’Uffizio, era già esistente dal 1542). Esse dovevano servire a trattare più velocemente gli affari, fino ad allora esaminati tutti dai cardinali riuniti in concistoro con il papa.

Dato l’aumento delle questioni da trattare, Sisto V riunì i cardinali in gruppi di lavoro (le congregazioni appunto) con i loro funzionari e consultori, di modo che essi trattassero la maggior parte dei problemi, riferendo al papa le cause più importanti. A tali congregazioni, profondamente riformate sotto Paolo VI, si erano affiancate recentemente le commissioni pontificie, per trattare questioni più specifiche o attuali.

Oggi il termine congregazione scompare, lascando posto a quello di “dicastero”. Semeraro ha spiegato che il termine “congregazione”, risalente ai tempi di Sisto V, supponeva che titolari di presidenza fossero unicamente i cardinali. «Non è più così. Il termine dicastero lascia intendere che in linea di principio possono svolgere tale ufficio tutti i battezzati: chierici, consacrati, laici».

«“Il dicastero – ha concluso il porporato – è un termine laico, congregazione è un termine clericale: a presiedere un dicastero può essere un laico, una laica, secondo i criteri indicati. Dicastero non è un termine generico ma diventa così un termine specifico».

In che modo “congregazione” non possa essere un termine che riguarda i laici, non è dato dirlo. Ma al di là del vocabolario, la grande novità della Costituzione apostolica tocca proprio il fatto che i dicasteri non sono più riunioni di gruppi di cardinali, con i loro assistenti tutti chierici, ma che è previsto che laici possano entrare a farne parte, ed anche esserne prefetti.

In realtà laici o religiose da tempo facevano parte del personale delle congregazioni, e persino in ruoli di rilievo, come quello di segretario (ordinariamente occupato da un vescovo). Solo la prefettura era teoricamente un ruolo cardinalizio, ma papa Francesco aveva già creato numerose eccezioni, non concedendo più la porpora a diversi prefetti delle ormai ex-congregazioni.

La questione dell’origine della giurisdizione nella Chiesa

Il problema principale si pone per il fatto che numerosi di questi ruoli richiedono l’esercizio di una vera e propria giurisdizione ecclesiastica di foro esterno, delegata dal pontefice. La giurisdizione ecclesiastica, per diritto divino, può essere ricevuta solo dai chierici, come ricordava l’antico canone 118. Essi non la ricevono con l’ordinazione, ma con la collazione di un ufficio da parte del superiore. Solo il papa riceve tale potere direttamente dal Cristo, e nella sua pienezza.

Sappiamo come Lumen gentium avesse mutato tale dottrina, sostenendo che per i vescovi la giurisdizione non sarebbe ricevuta dal papa, ma dal sacramento stesso dell’Ordine. Tale errore (già condannato dalla Chiesa fino a Pio XII compreso), molte volte ribadito nei documenti successivi (specialmente da Ratzinger) e dal nuovo diritto canonico, fonda l’altro errore della collegialità e la tanto decantata prassi sinodale.

Da un errore all’altro

Come risolvere dunque, in un’ottica modernista, il conferimento della giurisdizione in modo sistematico ai laici? Il padre Ghirlanda, uno dei più importanti canonisti romani, lo ha spiegato in modo sorprendente alla presentazione di Praedicate evangelium.

Il prefetto di un dicastero, spiega il gesuita, «non ha autorità per il grado gerarchico di cui è investito», ma per “la potestà” che riceve dal papa. «Se il prefetto e il segretario di un dicastero sono vescovi, ciò non deve far cadere nell’equivoco che la loro autorità venga dal grado gerarchico ricevuto, come se agissero con una potestà propria. La potestà vicaria per svolgere un ufficio è la stessa se ricevuta da un vescovo, da un presbitero, da un consacrato o una consacrata oppure da un laico o una laica».

In termini inequivocabili, padre Ghirlanda conclude: «La potestà di governo nella Chiesa non viene dal sacramento dell’Ordine, ma dalla missione canonica». Con questa frase il gesuita Ghirlanda annulla in un batter d’occhio l’errore di Lumen gentium, come se niente fosse, ma allo scopo di includere i laici nell’esercizio del potere di governo (cosa contraria al diritto divino).

Papa Giovanni aveva iniziato le sue riforme consacrando vescovi i cardinali di curia che non erano tali, e i canonisti ci hanno detto per anni che la curia romana era composta principalmente da vescovi, per mostrare la partecipazione alla sollicitudo omnium ecclesiarum che spetta a ogni vescovo per la sua ordinazione e appartenenza al collegio episcopale.

Non si doveva più vedere la giurisdizione come derivante dal pontefice ma dall’ordine episcopale, che partecipa tramite la curia e i sinodi anche alla cura della Chiesa universale.

Oggi la partecipazione dei laici alla delegazione del potere di giurisdizione annulla un aspetto essenziale della costituzione divina della Chiesa, nella quale solo al clero spetta ogni potestà pubblica.

Sembra di vedere in questa costituzione l’eco dell’intervista che Welby, “arcivescovo” di Canterbury, aveva rilasciato ai media vaticani il 6 ottobre scorso, parlando della sinodalità: «Nell’anglicanismo, la sinodalità, la maggior parte dei sinodi […]  ha tre camere o almeno due. Nella Chiesa d’Inghilterra, per esempio, abbiamo tre camere: vescovi, clero e laici».

Qualche anno fa, il sinodo sulla famiglia fu preceduto e bypassato dal documento che riformava i processi matrimoniali: annullare i matrimoni in un mese, sulla base della sola dichiarazione dei coniugi, è molto più semplice che vedere in quale modo dare la comunione ai divorziati conviventi.

Il sinodo sulla sinodalità va ad aprirsi essendo già bypassato dal documento sulla riforma della Curia: il problema non è più come far partecipare il collegio episcopale al governo della Chiesa universale, ma come equiparare tutti – laici clero e vescovi – nella possibilità di ricoprire tutte le cariche.

Se l’errore modernista non ha ancora annullato del tutto la gerarchia derivante dal sacramento dell’Ordine (pur avendolo sminuito e svuotato con la nuova liturgia), ha ora semplicemente cancellato la distinzione tra laici e clero nell’altra gerarchia, quella di governo, con un errore altrettanto pernicioso [1].

Appare curioso che, per ottenere questo risultato, un uomo preparato come padre Ghirlanda sia pronto a rimangiarsi Lumen gentium senza nemmeno citare il problema.

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[1] Esiste nella Chiesa una duplice gerarchia, che si estende ai medesimi soggetti: la gerarchia d’Ordine, fondata sul sacramento che le dà il nome, e che comporta almeno tre gradi (vescovi, preti e diaconi), e la gerarchia di giurisdizione, fondata essenzialmente sul papa per tutta la Chiesa e sui vescovi nelle loro diocesi, senza che questo pregiudichi la giurisdizione papale. I preti ricevono giurisdizione per delega del proprio vescovo o del papa. Solo i chierici possono appartenere alla gerarchia di giurisdizione.

Fonte: fsspx.news

 

 

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