Il nuovo statalismo climatico. E quel verde che sa molto di rosso

di Maurizio Milano

La scorso 12 agosto, sulla rivista il Mulino di Bologna è uscito un prezioso articolo, intitolato Un nuovo statalismo climatico, a firma di Paolo Gerbaudo, un sociologo esperto di comunicazione politica che dirige il Centro di ricerca sulla cultura digitale al King’s College di Londra e si occupa di movimenti sociali, partiti, campagne elettorali e social media. L’interesse dipende dal fatto che l’autore, in modo molto trasparente, “svela” l’iniziativa di superare il modello di economia di mercato, nella direzione di un nuovo statalismo, definito, appunto «statalismo climatico»; al quale, dopo le recenti modifiche, sembra convergere anche la Costituzione italiana.

La tesi di fondo è che l’economia di mercato è finita: il cosiddetto neoliberismo di Reagan e della Thatcher non corrisponderebbe più alle esigenze del nuovo mondo, perché l’emergenza climatica, che è globale, richiede inevitabilmente risposte globali. La premessa, che viene presa per certa, è la teoria del «riscaldamento globale di origine antropica» (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global Warming), insieme al più ampio concetto di «cambiamento climatico» che ne deriverebbe. Tali analisi sono al centro dell’attività dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), un’agenzia intergovernativa delle Nazioni Unite dedicata allo studio dell’impatto umano sul cambiamento del clima e sulle sue conseguenze.

Sulla teoria dell’AGW, mentre esiste un ampio consenso nella comunità politica internazionale non mancano invece critiche e riserve proprio all’interno della comunità scientifica: è significativo, per restare all’Italia, che nella famiglia Prodi l’AGW sia accettato dall’uomo politico Romano, mentre sia invece sconfessato dallo scienziato climatico suo fratello, il professor Franco, celebre studioso di fisica dell’atmosfera, meteorologia e climatologia, che rifiuta ogni allarmismo climatico affermando che le ipotesi dell’Onu sono «non del tutto disinteressate» e che «la scienza, oggi, non è in grado di dare indicazioni certe, perché la climatologia è una disciplina acerba», mettendo anche in guardia dal «rischio di mettere in pratica soluzioni non solo sbagliate, ma anche controproducenti».

Che la causa del riscaldamento globale degli ultimi decenni sia prevalentemente di origine antropica – anziché invece del tutto naturale, legata all’evoluzione dell’attività solare o a quella vulcanica, ad esempio – non è né dimostrabile né verificabile empiricamente, sia per la brevità del periodo in esame e l’elevata volatilità dei dati sia per l’estrema complessità dei fenomeni osservati. Fasi cicliche di riscaldamento del pianeta, tra l’altro, sono documentate dai paleoclimatologi ben prima della Rivoluzione industriale e dell’inizio delle emissioni di gas serra di origine umana: per limitarci agli ultimi duemila anni, anche se limitatamente al nostro emisfero, l’“Optimum Climatico Romano” (250 a.C.-400 d.C.) e il “Periodo Caldo Medievale” (950-1.250 d.C.), che furono tra l’altro particolarmente propizi per lo sviluppo della civiltà umana. Argomenti certamente insufficienti, considerati da soli, perché il riscaldamento globale coinvolge ora l’intero pianeta; ma considerando che le previsioni catastrofistiche dei decenni passati sull’evoluzione del clima e sui conseguenti impatti sul pianeta e sull’uomo si sono poi rivelate erronee, sarebbe auspicabile una maggiore prudenza nell’individuazione delle cause e nella conseguente definizione di “scenari” allarmistici, come invece fa l’Ipcc. Tanto che la teoria dell’AGW è ritenuta fallace da moltissimi scienziati autorevoli, tra cui, sempre per restare al nostro Paese, i celebri Antonino Zichichi e Carlo Rubbia.

In conclusione, si può certamente affermare che “lo dice la politica”, molto meno che “lo dice la scienza”. Non si può ridurre a negazionismo antiscientificoil dubitare della responsabilità esclusivamente prevalentemente umana dietro fenomeni così complessi: ne consegue che la pretesa di volere a tutti i costi (è il caso di dirlo) abbassare la temperatura del pianeta, come si fa col climatizzatore dell’ufficio, appaia oltre che prometeica e irrealistica, anche imprudente e probabilmente insensata. È ideologico, e non scientifico, considerare una teoria come se fosse una certezza dimostrata e verificabile empiricamente, e proporre scenari allarmistici per giustificare poi interventi di portata colossale, con gravi restrizioni alla libertà, ricadute inflazionistiche e costi astronomici, come riconosciuto anche da Bill Gates quando parla del cosiddetto green premium, l’extra-costo di 5mila miliardi di dollari annui per avviare la transizione ecologica verso un mondo “decarbonizzato”.

Presa per buona la premessa del cosiddetto “cambiamento climatico di origine antropica” – che è per definizione globale – e delle sue supposte conseguenze catastrofiche, è chiaro che anche la sovranità nazionale dovrebbe cedere il passo a una prospettiva di multilateralismo e di governance mondiale: a problemi globali soluzioni globali, insomma. L’unica via d’uscita per evitare la catastrofe planetaria sarebbe quindi l’evoluzione dei sistemi sociali, economici e politici verso un New Normal in cui gli Stati nazionali, le Banche centrali, la comunità internazionale, l’Onu, le grandi imprese corporate, i grandi media globalithink tank più importanti (come il World Economic Forum di Davos) collaborano tra loro, accentrando risorse, decisioni e stabilendo le direttrici di sviluppo e le metriche a cui i piccoli dovranno attenersi. Com’è noto, la “transizione ecologica” con la connessa pianificazione pubblica è uno dei punti centrali, anche se non il solo, dell’Agenda Onu 2030, del Build Back Better di Biden, del Green Deal Green Deal europeo, dell’«iniziativa» del Great Reset. In altre parole, dopo decenni di misure legate a politiche di mercato che si sarebbero rilevate poco più che palliativi, ora il contrasto al cambiamento climatico richiederebbe una pianificazione a livello statale e sovranazionale: ciò spiega il consenso generalizzato per la teoria dell’AGW nella comunità politica e nei grandi gruppi economici e finanziari.

Per fugare ogni dubbio interpretativo, lascio la parola a quanto scrive Gerbaudo nell’articolo citato, commentando il Sixth Assessment Report dell’Ipcc dello scorso 9 agosto, dove si evidenzia che oramai siamo in ritardo nel frenare l’aumento della temperatura del pianeta rispetto agli obiettivi che erano stati presi, in particolare nell’accordo di Parigi sul clima del 2015. A tal proposito, Gerbaudo afferma che «la prospettiva è quella di un pianeta dove sarà assai più difficile vivere. E soprattutto dove sarà difficile vivere in pace, dato il modo in cui il cambiamento climatico rischia di generare ondate di rifugiati climatici e scatenare una competizione per le risorse. Le parole di António Guterres segretario generale dell’Onu – “questo rapporto è una campana a morto per carbone e combustibili fossili, prima che distruggano il nostro pianeta” – più dure di quelle dei suoi predecessori, riflettono un crescente consenso nel mainstream politico ed economico rispetto alla necessità di accelerare sulla transizione. […] In un tempo in cui il negazionismo sul clima è ormai marginalizzato alle lobby delle compagnie petrolifere e fanatici del mercato senza regole, c’è una forte massa critica che spinge per una transizione rapida. […] Ma non sarà certo il mercato, né un cambiamento degli stili di vita, a risolvere il problema epocale che abbiamo di fronte. Il cambiamento climatico è il classico problema per cui “non ci sono soluzioni di mercato»”. Di fatto si è perso molto tempo utile sperando invano in tali soluzioni. Basti pensare al sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Emissions Trading System), considerato da molti come un fallimento, visti anche i prezzi risibili per comprare diritto a inquinare. […] La logica di mercato e il meccanismo del prezzo su cui esso poggia non sono efficaci per un bene pubblico come il garantire un ambiente vivibile. Dopo decenni di egemonia neoliberista e credo nel “mercato che si autoregola” nelle scelte di politica climatica si stanno affacciando forme di interventismo statale a lungo abbandonate. Solo uno Stato interventista può mettere in campo il coordinamento strategico ad ampia scala e mobilitare le risorse necessarie a vincere la sfida».

«Durante la pandemia, abbiamo assistito a una mobilitazione statale senza precedenti negli ultimi decenni: lockdown, grandi campagne di vaccinazione e grandi piani di stimolo e investimento hanno ribaltato l’immaginario politico su cui si reggeva il neoliberismo. Se alcuni fautori del libero mercato sperano che si tratti solo di una fase eccezionale prima del ritorno ai fasti degli anni Novanta e primi Duemila, è evidente che sono in corso cambiamenti strutturali nella sfera economica. Per diversi anni, se non decenni a venire, il mercato sarà di fatto sovrastato dall’ombra di grandi piani di investimento statale, come il Recovery Fund europeo e i programmi più ambiziosi lanciati dagli Stati Uniti. …] Nel nuovo liberalismo progressista di Biden […] il mercato non è più visto come uno spazio autonomo ma come l’oggetto di decisioni politiche volte a dettarne il comportamento».

A fonte della «enorme “esternalità negativa” prodotta dal capitalismo globale […] la strada è un ritorno a una vera pianificazione democratica, in cui lo Stato fissa obiettivi regolativi che poi deve essere il mercato a raggiungere, piuttosto che intervenendo direttamente nella produzione. Tra tutti i cambiamenti a cui stiamo assistendo nelle policy sul clima forse quello più significativo è il ritorno della pianificazione. Basti pensare agli obiettivi sanciti da diversi Stati, dalla Cina agli Stati Uniti, che puntano a dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro la fine del decennio o ai piani di vietare auto a diesel e benzina. Il governo britannico ha stabilito che dal 2030 si potranno immatricolare solo auto a motore elettrico, mentre Joe Biden ha fissato un più modesto 50% a fine decennio. Per l’Unione europea l’obiettivo è di fermare la produzione di auto non elettriche entro il 2035. Assistiamo dunque a un ritorno della pianificazione [… che] fa il paio con un ritorno prepotente della politica industriale».

«Diversi politici nei Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti sembrano aver cominciato ad accettare che solo un ritorno a un forte interventismo statale può sostenere lo sforzo colossale e garantire la celerità necessaria a evitare gli scenari più cupi tracciati dal rapporto Ipcc. Ma senza dubbio ci saranno enormi resistenze […: occorrerà] coinvolgere direttamente la popolazione nelle decisioni sul futuro; affinché la pianificazione climatica sia vista non come una scelta tecnocratica, ma come frutto di decisioni democratiche e legittime. […] A giudicare dalle reazioni alle forme di direzione e controllo statale durante la pandemia con il proliferare di movimenti no-mask e no-vax il ritorno della pianificazione statale verrà visto da settori della popolazione come un’imposizione inaccettabile. Ma un’altra strada non c’è. Le soluzioni di mercato puro, come il mercato delle emissioni hanno fallito e il cambiamento individuale negli stili di vita non è sufficiente. Per essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte occorre uno Stato pianificatore democratico che sappia approfittare dell’emergenza climatica anche come occasione per affrontare il problema ormai enorme della diseguaglianza sociale».

Più chiaro di così…occorre essere grati a Gerbaudo per avere descritto senza reticenze il progetto di transizione verso il “liberalismo progressista” soggiacente all’Agenda Onu 2030 e all’iniziativa del Great Reset, che molti bollano ancora come una delle tante conspiration theories, ovvero “teorie del complotto”. Nella prospettiva “anti-sussidiaria” e dirigistica chiaramente evocata dall’autore, il tempo della libertà economica, dei privati, delle piccole e medie imprese è definitivamente tramontato, e le crisi sanitarie, climatiche ed energetiche sono viste come delle grandi opportunità, dei catalizzatori propizi al salto di paradigma dall’economia libera all’economia pianificata, dallo shareholder capitalism – per dirla con Klaus Schwableader del Wef di Davos – allo stakeholder capitalism del XXI secolo.

L’articolo di Gerbaudo è precedente all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: al momento non è ancora chiaro se la guerra in atto e la conseguente destabilizzazione degli equilibri geopolitici, economici e finanziari pre-conflitto freneranno il progetto o addirittura, come si ripropone la Commissione europea nel piano REPowerEU, saranno l’occasione per ulteriori accelerazioni. A tal proposito, il vicepresidente della Commissione, Franz Timmermans, ha dichiarato: «buttiamoci nelle energie rinnovabili alla velocità della luce […]. La guerra di Putin in Ucraina dimostra l’urgenza di accelerare la nostra transizione energetica pulita».

Occorre precisare che il “capitalismo occidentale” è molto differente da come viene dipinto dalla narrazione prevalente, che lo definisce turbocapitalismo, capitalismo selvaggio o neoliberismo,e lo condanna come iniquo perché caratterizzato da un “eccesso” di libertà dei privati. I sistemi economici moderni, compreso quello statunitense, sono invece caratterizzati da livelli di spesa pubblica, pressione fiscale e contributiva molto elevati, rigide regolamentazioni di vario tipo, con spazi di libertà per i piccoli assai modesti e in progressiva contrazione; per di più, in particolare negli ultimi 10-15 anni, sono aumentate esponenzialmente le manipolazioni “politiche” del potere d’acquisto del denaro fiat ad opera delle Banche centrali, che hanno innescato forti dinamiche inflazionistiche, ai danni dei piccoli risparmiatori e dei titolari di redditi fissi. Il termine più corretto per qualificare il sistema “capitalistico” contemporaneo sarebbe quello di crony capitalism, capitalismo clientelare, con tendenza al “socialismo finanziario”. Ora si vorrebbe che tale modello – sicuramente fallimentare, ma per motivi opposti a quelli addotti dai critici di tale supposto neoliberismo – evolvesse, nel decennio in corso, verso quello che potremmo battezzare “socialismo liberale del XXI secolo”. Con l’obiettivo di uno sviluppo inclusivoresiliente e, ovviamente, sostenibile: queste le parole d’ordine, con risorse e decisioni progressivamente accentrate in cabine di regìa sempre più alte. La cifra di tale neocorporativismo tinto di verde è un nuovo contratto sociale caratterizzato da un’alleanza ancora più stretta tra il potere pubblico e i grandi gruppi privati, giustificata da uno “stato di eccezione” permanente: siamo entrati nell’era delle Nuove Politiche Economiche, ovviamente “democratiche” e accompagnate da una “grande narrazione” per creare il consenso necessario per giustificare gli enormi costi, sia in termini di benessere economico sia di libertà, richiesti da tale cambiamento epocale. Sacrifici pesanti e immediati ma che sarebbero giustificati dall’assenza di alternative e, ça va sans dire, dalla certezza di un “futuro migliore”.

Occorre essere molto grati a Paolo Gerbaudo. Green is the new Red: comunque la si pensi sulla teoria del riscaldamento globale “di origine antropica”, il progetto dello statalismo climatico e della pianificazione democratica adesso è davvero chiaro a tutti. Avrà successo? No, per almeno due ordini di motivi.

Innanzitutto, il reale è complesso e in continua evoluzione: nessun pianificatore centrale, per quanto “illuminato”, può quindi illudersi di disporre di tutte le informazioni rilevanti per prendere dall’alto e dal centro decisioni efficienti, efficaci e in tempi congrui; i piani sono infatti decisi a tavolino, non necessariamente da persone competenti o disinteressate, sulla scorta di informazioni parziali, datate e poi implementati nel tempo, mentre la realtà si modifica incessantemente, spesso in modo improvviso e imprevedibile: basti pensare alla guerra in Ucraina e alle conseguenze ignote ma profonde che comporterà sugli equilibri mondiali, a tutti i livelli.

Inoltre, progetti che si basino su un’antropologia distorta, e quindi su una sociologia rovesciata, sono destinati al fallimento finale per motivi “ontologici”, perché contrari all’ordine naturale delle cose.

Non senza produrre seri danni strada facendo, certamente, anche per lunghi anni: ed è il motivo per cui non dobbiamo stancarci di smascherarli e denunciarli, contrapponendo una “narrazione” vera alla “grande narrazione” ideologica del pensiero unico oggi dominante.

Fonte: Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa

 

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