La democrazia, la libertà e la sentenza della Corte suprema Usa

di Vincenzo Rizza

Caro Valli,

ho molto apprezzato l’articolo sul blog relativo a Onfray, autore che non conoscevo, e i riferimenti al Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, autore a me più familiare.

Nella bella prefazione alla prima edizione italiana pubblicata da Liberilibri di quest’ultimo libro, un altro noto libertario, Rothbard, cita a sua volta anche Lysander Spooner, il quale distingueva i sostenitori dei governi in tre classi: 1) i furfanti, che vedono nel governo uno strumento da usare per migliorare le proprie condizioni e arricchirsi; 2) gli sciocchi, abbastanza stupidi da pensare di essere uomini liberi governati da un governo libero per il solo fatto che a ciascuno di essi è “concessa una voce in capitolo, una voce su milioni, per decidere ciò che può fare di sé stesso e dei suoi averi, ed essendogli concesso di avere la stessa possibilità di rapinare, assoggettare e uccidere gli altri che questi ultimi hanno di rapinarlo, assoggettarlo e ucciderlo”; 3) coloro che hanno una qualche idea dei mali del governo, ma non sanno come difendersene.

Lo stesso Spooner paragona il governo ad un brigante che intima all’individuo “o la borsa o la vita” (il riferimento è naturalmente  alla tassazione); con la sola (non irrilevante) differenza che mentre il brigante accetta la responsabilità del suo gesto criminale e dopo aver preso i soldi scappa, il governo continua a seguirti contro la tua volontà per importi “protezione”, “bollandoti come ribelle, traditore e nemico della tua patria, e uccidendoti senza pietà, se neghi la sua autorità o ti opponi alle sue richieste” e, aggiungo io, pretende anche di essere ringraziato. Del tutto irrilevante, in proposito, la circostanza che il governo sia democraticamente eletto perché “un uomo non è meno schiavo perché gli è permesso scegliere un nuovo padrone una volta ogni tanti anni”.

A proposito dell’ingerenza dello Stato nelle nostre vite e nelle libertà individuali, mi ha colpito il clamore che ha interessato la recente sentenza della Supreme Court statunitense in tema di aborto. Come correttamente evidenziato da Mattia Magrassi nell’articolo pubblicato anche nel blog, la vicenda dimostra, se ve ne fosse bisogno, la superficialità con cui l’argomento è affrontato dalla stampa, innanzitutto italiana, che ha bollato la sentenza come decisione che avrebbe abolito il diritto all’aborto.

In realtà la Corte non si è affatto espressa sul punto, limitandosi a prendere atto che la Costituzione federale non prevede espressamente il diritto all’aborto e pertanto ciascuno Stato è libero di regolamentarlo o proibirlo (testualmente: “The Constitution does not prohibit the citizens of each State from regulating or prohibiting abortion” con l’effetto che ogni potere è rimesso “to the people and their elected representatives” (p. 79 della sentenza).

Il XIV emendamento, infatti, posto essenzialmente a fondamento del precedente orientamento ribaltato dalla recente decisione, non menziona il diritto all’aborto ma fa generico riferimento al concetto di liberty (testualmente, nessuno Stato “shall … deprive any person of life, liberty or property, without due process of law”) che, come, scriveva Lincoln, ha un significato non univoco (“We all declare for Liberty, but in using the same word we do not all mean the same thing”; p. 13 della sentenza).

La decisione costituisce sicuramente una sconfitta momentanea per i tanti sostenitori dell’aborto libero ma non risolve di certo la questione tenuto conto che più volte i giudici tengono a sottolineare che “our decision is not based on any view about when a State should regard prenatal life as having rights or legally cognizable interests” (p. 29 della sentenza; il concetto è ripetuto anche a p. 38) e pertanto non prendono posizione sulla legittimità della pratica dell’aborto e sui diritti del nascituro, limitandosi, appunto, a consentire a ciascun singolo Stato di regolamentare la materia e ad impedire alle corti territoriali di sostituirsi al legislatore (testualmente “It follows that the States may regulate abortion for legitimate reasons, and when such regulations are challenged under the Constitution, courts cannot “substitute their social and economic beliefs for the judgment of legislative bodies”; p. 77 della sentenza).

Nulla di nuovo sotto il sole: la decisione sulla soppressione di una vita può essere tranquillamente decisa da una legge (poco importa se ordinaria o di rango costituzionale) adottata da una maggioranza, più o meno qualificata, sulla base di un concetto singolare di libertà (quello della madre) che non tiene in alcuna considerazione il diritto del concepito di venire al mondo. La libertà di autodeterminarsi è sacrosanta, ma deve fermarsi quando viola la pari libertà di un altro individuo (già concepito anche se non ancora nato); tanto più quando quell’individuo è indifeso e non può far valere le proprie ragioni. Ancora una volta la tirannia della maggioranza vince.

Scriveva Benjamin Franklin che “La democrazia è due lupi e un agnello che votano su cosa mangiare a colazione. La libertà un agnello bene armato che contesta il voto”. Nel nostro caso l’agnello è disarmato e offerto al sacrificio.

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