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Riscoperte / La religiosità profetica di Cristina Campo

di Fabio Battiston

Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini (1923 – 1977), è una delle più luminose figure della cultura italiana del Novecento. Fino alla sua prematura morte (causata da una patologia cardiaca che l’affliggeva sin dall’infanzia) fu poetessa, traduttrice, critica letteraria e scrittrice di grande levatura intellettuale, ma non solo. Come vedremo (ed è l’argomento per il quale propongo a Duc in altum questo contributo), Cristina Campo fu una fervente cattolica; si avvicinò progressivamente al cristianesimo che divenne per lei ragione di vita – ed anche di profonde analisi e riflessioni – soprattutto negli ultimi quindici anni della sua vita. Ne parleremo a breve. Il nome e la figura della Campo, tuttavia, sono praticamente sconosciuti ai più e solo in quest’inizio di XXI secolo stiamo assistendo a un recupero, una vera e propria riscoperta, dei tesori che questa donna ci ha lasciato.

Il motivo di questa disconoscenza? È presto detto: Cristina Campo non ha mai appartenuto alla cosiddetta “cultura ufficiale” che dal dopoguerra a oggi, sotto il giogo della sinistra politico-intellettuale, ha monopolizzato (e continua a farlo) il panorama culturale italiano. Essa fa parte di quella galassia – ignorata, reietta, offesa e disprezzata – in cui brillano tanti altri grandi personaggi di una cultura che non ha mai voluto identificarsi col marxismo e i suoi successivi derivati (il catto-comunismo tra questi) e che, anzi, ha costantemente marcato la propria diversità, pagandone un prezzo altissimo. Altre grandi figure femminili hanno subito il medesimo trattamento: da Orsola Nemi a Margherita Sarfatti e, non ultima, Ada Negri.

Dicevamo della Campo fervente cattolica, animata da una fede che si alimentava anche di simboli, quelli liturgici in primo luogo, e della loro capacità di trasmettere concretamente il sacro nei suoi aspetti più profondi. La trappa ed il monachesimo cistercense di stretta osservanza erano il suo mistico e spirituale rifugio. In tale contesto sempre vivissimi sono stati i suoi rapporti con la religiosità ortodossa nella quale individuava spesso quegli elementi che, nella “nuova Chiesa post-conciliare” nascente negli anni Sessanta, le apparivano sempre più dimenticati e ignorati. Nei suoi scritti la Campo ha affrontato in vario modo queste tematiche. Memorabili restano due sue introduzioni ad altrettante celeberrime opere: Racconti di un pellegrino russo (Rusconi, 1973) e Detti e fatti dei Padri del deserto (Rusconi, 1975).

Rileggendo alcuni passi di quanto la Campo scrisse in quegli anni in tema di fede, non si può non vedere un’incredibile anticipazione (quasi profetica, mi si passi il termine) delle situazioni che stiamo attualmente vivendo – e soffrendo – nel nostro tormentato rapporto con la Chiesa cattolica di quest’inizio di terzo millennio. Vorrei quindi offrire ai lettori di Duc in altum alcuni stralci di queste riflessioni con l’auspicio di poterne tutti trarre beneficio per proseguire la nostra azione nella temperie che stiamo purtroppo vivendo.

Quanto ora riportato è tratto dal volume Sotto falso nome (Biblioteca Adelphi 352, 1998); l’opera, curata da Monica Farnetti, raccoglie saggi, recensioni, note e frammenti scritti dalla Campo tra il 1944 sino alla sua morte. Da questi brevi e non esaustivi stralci (che spero possano indurre i lettori ad approfondire la conoscenza con questo personaggio) emerge una Campo capace di tessere una sorta di “teologia della liturgia” non astratta ma capace, invece, di suscitare elementi concreti per una rilettura del rapporto tra il simbolo e la fede.

Ecco i tre contributi che propongo.

Da Note sopra la liturgia (1966)

Assistendo ad una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto ad un Vespro ben officiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana) si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il breviario lo conferma, currens per annum circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini… questa “immensa e delicata” liturgia mostra di ben portare il nome che le diede San Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interpretare le grandezze di Dio e del creato… Liturgia è anche desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti… di restituire al Creatore, in virtù della sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus tibi propter magnam gloriam suam.

In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

Da La Trappa (1967)

Disse quel pontefice [Giovanni XIII] ai Trappisti delle Tre Fontane che non riteneva di poter dare inizio alla gran battaglia di un Concilio ecumenico senza averne affidato le sorti alla preghiera delle mute, inesorabili guarnigioni che, lasciando operare Marta, s’erano appropriate da sempre, con Maria, l’”unum necessarium”, e sole ormai potevano dispensarlo.

Usciranno indenni i solitari di San Bernardo dalla febbre umanistica e umanitaria che sconvolge gli spiriti, come un tempo la malaria sconvolgeva la valle degli eucalipti?… Passerà il prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e “comprende tutto”, come passarono l’abatino voltariano e il cardinale dodicenne del Rinascimento. Resterà il Trappista: terribilmente moderno attraverso i secoli, come ciò che è radicato nel cielo”.

Da Fuga e sopravvivenza (1969)

Nota esplicativa: in questo scritto Cristina Campo prefigura un parallelismo tra la tragedia del popolo tibetano (con il massacro dei monaci e l’esilio del Dalai Lama) della fine degli anni Cinquanta del secolo scorso con quanto in quegli stessi anni stava per colpire il mondo cristiano.

La memoria di questa silenziosa e quasi obliterata tragedia [quella del popolo tibetano] appare di colpo come una lunga e terribile lettera all’Occidente cristiano sul quale cominciava ad abbattersi la maggior bufera nell’intera storia della sua Rivelazione. Nell’ora in cui cadeva fisicamente il Tibet, quasi una morgana capovolta nel cielo si iniziava la caduta spirituale dell’Occidente cristiano. E, come nella mente dell’uomo religioso il rogo di tutti i libri tradizionali del Tibet appare di un più squisito orrore che non la morte dei martiri, così la tragedia cattolica – dove i millenari libri canonici vengono arsi dai loro stessi custodi e l’immensa cosmologia degli splendori liturgici e delle loro celesti corrispondenze è rigettata da depositari divinamente designati – appare ancor più terribilmente perfetta. Entrambe le catastrofi hanno origine da un identico principio: quell’oblio, non soltanto della dimensione verticale del pensiero, ma di quella garanzia verticale del mondo, che è molto più di un’empietà, è un suicidio. Questo principio sta operando sul cristianesimo dall’interno, per quali vie non si osa pensare, “tali e tante sono le forze di distruzione in agguato” all’interno di ogni uomo…abdicazione alla docenza della gerarchia e morte apostatica della Chiesa.

C’è quasi da restare senza fiato, tanta è l’incredibile attualità di queste parole. Sono peraltro innumerevoli gli altri “profetici” scritti nei quali, con estrema sofferenza spirituale e personale, Cristina Campo ha lucidamente prefigurato – sessant’anni fa – ciò che stiamo crudelmente vivendo oggi come quotidiana realtà. La sua riscoperta e lo studio delle sue opere, non solo quelle più squisitamente religiose, possono offrirci un esempio di come si possa e si debba essere fieramente “altro” in un mondo ormai capovolto nella sua definizione di bene e di male.

Aldo Maria Valli:
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