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Pandemia e lockdown. Il potere di due parole magiche

di Sinead Murphy*

All’alba del 2020 due concetti si sono profilati improvvisamente al nostro orizzonte: “pandemia” e “lockdown”. Nel giro di un mese o due, hanno gettato la loro ombra su tutto e su tutti.

I concetti di “pandemia” e “lockdown” hanno in comune qualcosa di fondamentale. Ciascuno di essi descrive un assoluto: una malattia che colpisce tutte le persone, ovunque siano, e uno stato di completa reclusione.

Ma la realtà umana non ammette assoluti. Non può esistere una malattia che colpisca tutte le persone dappertutto. Anche i più accaniti sostenitori della pericolosità del Covid accettano che alcuni gruppi demografici possano essere più o meno immuni alla Sars-CoV-2.

Allo stesso modo, nessun confinamento delle popolazioni, se vogliamo escludere le istituzioni carcerarie, può avvicinarsi a una qualche forma di completezza: le politiche “zero Covid” adottate da alcuni governi sono state fallimenti perché insensate.

Eppure, nonostante descrivano qualcosa che non può essere reale, i concetti di “pandemia” e “lockdown” hanno prodotto un effetto sorprendente. Intere fasce di persone fino ad allora capaci di pensiero razionale e di moralità sono cadute, impotenti, sotto il loro incantesimo. Più si dimostrava che la “pandemia” era impossibile, più ci si credeva. E quanto più il “lockdown” si rivelava allucinante, tanto più se ne godeva come di qualcosa di necessario.

Mentre il fantasma della malattia totale e del suo totale contenimento andava sempre di più contro l’evidenza e la comprensione, ecco che vi si aderiva più strettamente e se ne parlava più febbrilmente.

Non lo si poteva negare: le persone sembravano strafatte di “pandemia” e “isolamento”, in un trip che volevano disperatamente non finisse.

Verso la fine del XVIII secolo, il filosofo Kant descrisse in dettaglio proprio quel tipo di piacere irrazionale che ha smantellato le facoltà razionali di tanti sballati di Covid. Forse consapevole del suo devastante potenziale di vanificare tutto ciò che è umano, Kant descrisse l’esperienza in un piccolo angolo della sua grande opera sul pensiero e l’azione umana. Quello di cui parlò è il sublime.

Ci sono momenti, scrive Kant, in cui ci troviamo improvvisamente di fronte a una montagna superba, dall’altezza magnifica. Stiamo percorrendo un sentiero alpino ed ecco che, all’improvviso, scorgiamo la vetta, vicinissima. Il fatto che la visione sia improvvisa e che l’oggetto sia tanto vicino è cruciale in questo caso: senza tempo per calibrare e senza spazio per confrontare, la montagna appare come un assoluto, troppo massiccia e troppo immediata per essere messa in relazione con altre caratteristiche del paesaggio.

In questi momenti, sostiene Kant, le nostre facoltà sono messe a soqquadro. Privati del tempo e dello spazio in cui cogliere un oggetto in relazione ad altri oggetti del nostro quotidiano, siamo privi delle condizioni stesse dell’esperienza, incapaci persino di concepire ciò da cui siamo, in qualche modo, colpiti.

Tali esperienze sono naturalmente dolorose, in quanto comportano quasi lo smantellamento delle nostre facoltà. Ma, sostiene Kant, sono anche piacevoli: un’esperienza che non può essere contenuta nel tempo e nello spazio umani è, per definizione, sovrumana. E il fatto che possiamo farla, anche se comporta una dolorosa devastazione delle condizioni poste normalmente, è qualcosa di gratificante, persino di lusinghiero.

Noi umani abbiamo almeno un’idea del superumano, anche se solo come distruzione di tutto ciò che è umano. Noi umani possiamo almeno commuoverci per gli assoluti, anche se solo in termini di tremore per la nostra fine.

È questa sensazione, è questo brivido che il Covid ha dato a tanti? La prospettiva di una “pandemia” e la promessa di una “serrata” – messe davanti a noi così improvvisamente e in modo così evidente e implacabile – sono state tanto dolorose quanto piacevoli? L’assalto alle normali condizioni della ragione umana è stato vissuto come gloriosamente sublime? La minaccia a tutto ciò che avevamo conosciuto fino ad allora ci ha fatto sentire non al di sotto di noi stessi ma al di sopra, non subumani ma superumani? È per questo che tanti hanno voluto – e tanti vogliono ancora – la continuazione dello spettacolo del Covid?

Se è così, allora la narrazione relativa al Covid ha avuto successo non nonostante le sue premesse e le sue conclusioni fossero irrazionali, ma proprio perché erano irrazionali. Dopo tutto, per le nostre facoltà umane una minaccia assoluta e la sua assoluta mitigazione dovrebbero sembrare irrazionali. Abbiamo goduto dell’esperienza dell’intuizione divina direttamente in proporzione al fatto che abbiamo messo da parte tutto ciò che prima sapevamo essere giusto e buono.

Naturalmente, il sublime mostra sempre la tendenza a crollare nel ridicolo. Se la bolla scoppia, se l’irrazionalità e la disumanità cessano di farci sentire come se fossimo in presenza di una verità assoluta, allora appaiono per quel che sono: nient’altro che irrazionali e disumane.

L’imperatore può sbalordire il popolo esibendo una magnificenza sconvolgente. Ma, ma una volta che una voce solitaria rompe l’incantesimo dicendo che è nudo, egli non potrà mai essere altro che una figura ridicola e senza vestiti.

Alla fine, è stato il lento accumularsi di miseri calcoli e patetici protocolli a far scivolare il Covid dal sublime al ridicolo: decadenza inevitabile.

Forse è per questo che hanno avuto subito bisogno di una nuova malattia: una nuova “pandemia” che richiedesse un nuovo “lockdown”, in modo che la sublime devastazione di tutto ciò che è umano potesse riprendere seriamente.

Il problema è che hanno sbagliato il nome. Non l’oscuramente scientifico “Sars-CoV-2”. Né il più generico ma dal suono imperioso “Coronavirus”. Ma “Vaiolo delle scimmie”. Vaiolo delle scimmie! La parola “vaiolo” è comodamente installata nella nostra mente come lontana, per non parlare di tutte le connotazioni ridicole e spregiative legate alla parola “scimmia”.

Il vaiolo delle scimmie è una malattia endemica, almeno in molti Paesi africani. È certamente reale e, senza dubbio, a volte può essere grave. Ma il suo nome è ridicolo e non potrà mai raggiungere il sublime.

L’Organizzazione mondiale della sanità si sta affrettando a etichettare in modo diverso la nuova “pandemia”, cercando di trovarle un nome adeguato per la minaccia globale alla sopravvivenza umana. Ne troveranno uno, senza dubbio. Ma per quanto potrà essere bello e impressionante sotto il profilo tecnico e storico, funzionerà al fine di mettere la gente di nuovo sotto incantesimo? Qualcosa è mai passato dal ridicolo al sublime?

*Docente di filosofia all’Università di Newcastle. La sua pubblicazione più recente è Zombie University: Thinking Under Control, Repeater, 2017)

Fonte: off-guardian.org


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Aldo Maria Valli:
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