Fesch, l’assassino in attesa di canonizzazione

di Alessandro Staderini Busà

Non voglio guardare né avanti né indietro:

conta solo l’istante presente.

Jacques Fesch

Lo chiamano, nella cultura pop, “Club 27” e vi stanno idealmente raccolti gli artisti che dal dopoguerra a oggi sono morti anzitempo, strappati al successo in circostanze drammatiche. Ci sono Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, James Morrison, Jean Micheal Basquiat, Kurt Cobain, Amy Winehouse e altri meno conosciuti. Li accomuna esser passati a miglior vita – o a peggiore, a seconda dei punti di vista – all’età di ventisette anni, con il curioso dettaglio, per gran parte di loro, di una J contenuta nel nome. Molto in comune con Jacques Fesch, servo di Dio e non rockstar. Anche lui ricco, adorato, ventisette anni e una J impressa sulla lapide. Ma le somiglianze finiscono qui. Sarebbe perfino infamante ammetterlo nel privée di questo circolo, assieme a quella schiera di tossici e alcolizzati autodistruttivi, benedetti da un talento che non seppero meritare. Non perché il personaggio Jacques Fesch non possa rientrare fra i divi di un certo sottobosco rock’n’roll inaugurato dalla penna di Kerouac. Ma perché, al contrario di quanti dimostrarono il loro fallimento nell’ora di maggior gloria – chi sparandosi, chi affogando, chi avvelenandosi, chi gettandosi dal balcone e chi schiantandosi con l’auto – Fesch guadagnò il proprio successo nell’ora più oscura. Lui che un talento di poeta, musicista, pittore, non lo aveva, ebbe in dote una sentenza capitale.

Il padre aveva servito a lui e alle sue sorelle una vita di agi, premio di quel materialismo importato dagli Usa con il secondo dopoguerra, il quale, se ben messo in pratica calpestando il prossimo, ti spiana la carriera, ti rende ricco. Ma non era abbastanza. In casa mia non esistevano carezze o sorrisi, eravamo tutti dei mostri di egoismo e di orgoglio, avrebbe scritto Jacques. Studiò in uno di quei collegi privati in cui si formano i figli dell’alta borghesia e della nobiltà. Diciannovenne capriccioso, interruppe gli studi universitari. Il padre gli trovava impiego nella banca di cui era direttore, e lui si licenziava, preferendo dedicarsi a tirare fino all’alba nei jazz club parigini. Bello, rassomigliante al coetaneo James Dean, emblema dei tormenti di quella generazione, presto prese a noia anche le molte conquiste da una notte e via. Iniziò così una relazione fissa con Pierrette, che restò incinta. Entrambi molto poco inclini a tutto ciò che sa di religione, si sposarono civilmente correndo ai ripari della gravidanza, prima che prendesse a timbrare il cartellino nell’azienda del suocero. Le responsabilità di genitore lo soffocavano, il lavoro una fatica a cui era impreparato. Così lasciò la moglie e la figlia neonata. Il concetto che aveva di sé, eroe incompreso e solitario, lo spinse a progettare un viaggio in barca a vela, verso l’eden di quella Polinesia che aveva rapito il pennello e i sensi al pedofilo Gauguin. Gli servivano due milioni e duecentomila franchi, richiesta esosa anche per la munificenza del padre. Il modo a cui allora pensò per procurarseli fu un coup de main hollywoodiano e fai da te come una rapina a mano armata. Cosa che organizzò, a danno d’un cambiavalute, con due delinquentelli di strada presi per compari. La fuga col bottino, però, non andò secondo i piani. Braccato da un officier de police su Boulevard des italiens, Jacques freddò l’uomo con un colpo di pistola.

Nel 1954 “l’affaire Fesch” è il caso giudiziario francese dell’anno. Il suo avvocato non può dare grandi speranze: improntare la difesa sull’aver mirato alle gambe senza intenzionalità d’uccidere non sarà molto. Una delle migliori toghe del foro, è uomo di fede, omosessuale che ha fatto voto di castità, rinominato dal cliente “la pantera di Dio”, per l’insistenza con cui torna a parlare di religione durante i loro colloqui. Dopo un anno di isolamento, col processo che tira per le lunghe, Fesch di punto in bianco chiede del cappellano carcerario, rifiutato nei primi giorni dietro le sbarre. Gli confida: era una sera, nella mia cella… stavo a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente, con una intensità rara, ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello al soccorso: Mio Dio! Mio Dio! Poi una voce che, come un lascito di Jeanne d’Arc, gli ripete per due volte: Jacques, tu ricevi le grazie della tua morte. Il cappellano torna a trovarlo sempre più spesso, si fa suo amico, ne segue i primi passi dell’anima, gli recapita Le Confessioni agostiniane e Storia di un’anima di Teresa di Lisieux, consigliando di tenere un diario. Straziante scorrere le pagine di ciò che Fesch chiamava “giornale intimo”. Testimonianza di che mutazione travolgente possa avvenire nell’abisso interiore di un uomo. Accreditato oggi come uno dei testi più intensi di letteratura mistica di sempre: sarà il documento che, a partire dal 1987, tornerà utile al processo di canonizzazione, tuttora in atto. Presto le pagine del diario non bastano più e quotidiane sono le lettere che indirizza a conoscenti, amici, parenti. Tutto è diventato chiaro in pochi istanti, dice. Quindi è venuta la lotta, silenziosamente tragica, fra ciò che sono stato e ciò che sono diventato, perché la creatura nuova innestata in me implora una risposta alla quale resto libero di rifiutarmi. Il detenuto organizza la giornata come quella di un monastero, scandendo con rigore le ore di preghiera, di lettura, di meditazione, di confessione, di Messa, di scrittura a lume di candela. Restiamo sempre soli nella nostra cella, salvo una mezz’ora di passeggiata al giorno, ugualmente soli; una mezz’ora di parlatorio alla settimana, un pacco al mese: ed è tutto. Alle sette di sera siamo immersi nell’oscurità. Passano i mesi. Si attende l’esito di un processo con la prospettiva che se tutto va bene piglierò vent’anni, altrimenti l’ergastolo. Poi, nel giorno del ventisettesimo compleanno, la sentenza di morte. L’avvocato tenta l’ultima carta, domandando la grazia al capo dello Stato. Ma stavolta è Jacques a trattenere le illusioni: l’omicida non esiste più, è un piccolo mistico a parlare. Non sarò graziato perché se lo fossi – replica all’avvocato – non so se vivendo ancora potrei rimanere sulle vette dove Gesù mi ha condotto. È meglio che io muoia… Va proprio così, col presidente della Repubblica che rigetta la grazia. Ora ho veramente la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un morto vivente.

Quanto spiazza sentir così da uno che sa l’ora e il giorno della propria morte? Quanto più se, fino a poco prima, lo stesso affermava che Dio è una graziosa leggenda, la consolazione di coloro che soffrono, la religione dello schiavo e dell’oppresso? Cosciente e responsabile dell’amore sciupato con Pierrette, capisce che sposarsi col prete anziché con l’inviato del sindaco come officiante, avrà valore eterno e lotta per convincervi la donna che ama, ebrea di nascita e atea di pratica. Lei aspetta la Fede per pregare e non vuole pregare per avere la Fede, si addolora. Poi, inaspettatamente, la Pierrette cambia. E a un giorno dall’esecuzione, i due convolano a nozze: l’ultimo desiderio esaudito per il morituro Jacques Fesch. Io non muoio, non faccio che cambiar vita, dice a quanti sta per lasciare. Come un passeggero al gate dell’aeroporto, smanioso d’approdare a quell’Eden che per errore aveva intravisto negli atolli polinesiani. Strana la vita. Se qualcosa cerchi, chiedi, brami, accade che tu venga realmente ascoltato e, per vie traverse, accontentato oltre i limiti della tua immaginazione. Un ultimo ostacolo di fronte, non appena i cancelli delle visite si chiudono per tutti i suoi affetti, e resta l’ultima notte sulla terra. Scoglio estremo da doppiare, da solo e in mare aperto, per toccare nuovi lidi. Avrei voluto dormire un poco, ma evidentemente non posso. Sono tuttavia riempito di forza e ho la mente chiara. Di tanto in tanto l’immaginazione lavora e sono obbligato a lavorare perché non mi trascini troppo lontano. Levatosi dal letto nel buio delle 3 antimeridiane del 1° ottobre 1957, chiede al secondino se può aver accesa la luce. Perché è fra poco e bisogna che mi prepari, scrive. La pace è svanita per far posto all’angoscia. Ho il cuore che salta nel petto. Ma quando vengono a prelevarlo per portarlo al cortile dove il patibolo attende, è pronto. Confessato e comunicato, le mani legate, si alza e va. Alle 5:29, un minuto prima che il boia faccia cadere la lama, Fesch replica il gesto della Pulzella d’Orléans, accostando le labbra a un crocifisso.

Sosteneva Marco Aurelio come la morte sorride a tutti e un uomo non può che sorriderle di rimando. E chissà se abbia davvero sorriso, al fatidico momento, l’imperatore filosofo. Perché una cosa è la teoria, altra la pratica. Dicono i presenti, però, che l’espressione di Fesch, davanti alla ghigliottina, era proprio quella. E la sua testa un fiorellino di primavera che il padrone del giardino coglie per suo diletto, come si figurava lui stesso. Aggiungendo, alla pagina del diario, qualcosa che finora non doveva aver mai detto. Sono felice.


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