
Altro che “nel solco di Francesco”! Solo il ritorno alla Tradizione può risanare le ferite
Per la restaurazione della retta dottrina. Considerazioni canonico-teologiche sui principali punti di ambiguità del pontficato di Francesco
di Daniele Trabucco*
La morte di papa Francesco, avvenuta il 21 aprile 2025, chiude un pontificato di dodici anni (2013-2025) che, pur animato da buone intenzioni pastorali, ha introdotto nel corpo della Chiesa non pochi elementi di ambiguità dottrinale e disciplinare. Un’analisi canonica e teologica, conforme al “munus” di vigilanza sulla Verità di fede, cui un laico non è esente, impone di individuare tali deviazioni al fine di salvaguardare l’unità e la santità della Chiesa.
Tra i principali problemi si annovera, innanzitutto, il contenuto del capitolo VIII dell’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia del 2016. Qui, invocando il principio della “legge della gradualità” (cfr. Familiaris consortio, 34), si giunge ad aprire la possibilità per i fedeli divorziati e risposati civilmente, benché non sia dichiarato espressamente, di accedere ai sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza anche se permangono in una condizione oggettiva di peccato grave e senza richiedere un impegno stabile a vivere in castità (così Amoris laetitia, nn. 299–305, in particolare la nota 351). Questa applicazione distorce gravemente la nozione originaria di “gradualità”, che in Familiaris consortio di san Giovanni Paolo II del 22 novembre 1981 si riferisce al cammino soggettivo di crescita morale nella piena adesione alla legge divina, mai alla sospensione della legge oggettiva, né alla concessione dei sacramenti a chi permane volontariamente in uno stato che la Chiesa ha sempre riconosciuto come incompatibile con la comunione sacramentale (cfr. canone 915 del vigente Codex iuris canonici del 1983). La gradualità si riferisce all’accompagnamento educativo e alla conversione progressiva, non alla relativizzazione della norma morale.
Pretendere che la soggettiva “diminuzione di imputabilità” possa, da sola, giustificare l’ammissione ai sacramenti in assenza di un sincero proposito di mutamento di vita contraddice apertamente la dottrina cattolica sull’integrità del sacramento della Penitenza e sull’esigenza della comunione eucaristica, come sancito del resto nel Magistero ordinario universale (cfr. Conc. Trid., sess. XIII, canone 11; san Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 37). Analogamente, la Dichiarazione di Abu Dhabi dell’anno solare 2019 contiene un’affermazione teologicamente inaccettabile, laddove si attribuisce a Dio stesso la volontà positiva della pluralità delle religioni. Sebbene in senso permissivo Dio possa permettere l’errore per rispetto della libertà umana, in nessun caso il pluralismo religioso può essere voluto da Dio come bene in sé (cfr. san Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 19, a. 9 ad 3um). L’affermazione contenuta nel documento, senza una adeguata qualificazione teologica, rappresenta dunque una lesione del principio di unicità e universalità salvifica di Cristo e della Chiesa, definito dogmaticamente anche nel Concilio ecumenico Vaticano II (cfr. la costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 14) e poi ribadito, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, con la dichiarazione Dominus Iesus dell’anno 2000.
Fortemente problematica, in questa linea, anche la lettera enciclica Fratelli tutti del 2020, la quale propone una visione antropologica e sociale fortemente naturalistica, in cui la fraternità umana viene presentata più come un dato di natura che come il frutto della redenzione operata da Cristo. Si oscura così il carattere soprannaturale della vera comunione tra gli uomini, che trova il suo fondamento nella rigenerazione battesimale (cfr. Gal 3,26–28) e nell’appartenenza al Corpo mistico di Cristo.
Gravi, inoltre, sono le ambiguità emerse nel Sinodo sulla sinodalità (2021–2024), ove, in nome di una nuova configurazione ecclesiale, si è insinuato il rischio di una democratizzazione della struttura gerarchica della Chiesa. La dottrina cattolica insegna che il potere di governo nella Chiesa deriva immediatamente da Cristo ed è esercitato in forma sacramentale e gerarchica (cfr. Lumen gentium, nn. 18–22 e il canone 129, paragrafo 1, del Codice di diritto canonico del 1983). L’idea implicita, ma evidente, dell’esercizio di un “munus petrino”, quale risultato delle assemblee sinodali, contraddice il diritto divino della costituzione della Chiesa, peraltro in netta opposizione a un pontificato fortemente accentratore come quello di Francesco.
Da ultimo, sul piano geopolitico, si registra un’enfasi eccessiva su programmi globali come l’Agenda 2030, sostenuta anche nell’enciclica Laudato si’ del 2015, o come l’accoglienza dei migranti senza precise condizioni, quando la Dottrina sociale della Chiesa mette al primo posto la garanzia del diritto a non emigrare.
Tutto questo ha esposto la Chiesa al pericolo di essere percepita come una ONG morale, anziché come la continuatrice della missione salvifica di Cristo. Il primato dell’annuncio evangelico è stato, infatti, sovente subordinato a tematiche ambientali e sociali di ispirazione naturalistica.
Il prossimo Successore di Pietro avrà l’obbligo grave, davanti a Dio e alla Chiesa, di restaurare la piena integrità della dottrina e della disciplina cattolica, correggendo, con atto formale, le affermazioni e le prassi contrarie alla fede ricevuta.
Solo un ritorno esplicito alla Tradizione, quale fonte viva e vincolante, potrà risanare le ferite arrecate al corpo ecclesiale, riaffermare il principio di non contraddizione nella fede, e guidare nuovamente la Chiesa nella fedeltà al suo Signore. Altro che… nel solco di Francesco come ha affermato nell’ “omelia-candidatura” il cardinale Parolin.
Deus avertat!
*professore strutturato in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario San Domenico di Roma. Dottore di ricerca nell’Università degli studi di Padova