
Santi e animali / San Francesco di Paola e Martinello
di Michela Di Mieri
Nato il 27 marzo 1415 a Paola, in Calabria, da genitori in età avanzata, fu chiamato Francesco in onore del santo di Assisi. Dalla profonda religiosità francescana sin da bambino, fondatore dell’Ordine dei Minimi, trascorse la vita negli eremitaggi da lui eretti tra la Calabria e la Sicilia, fino a quando, all’età di 67 anni, non venne richiesto alla corte parigina del re Luigi XI, speranzoso che il taumaturgo, di cui gli era giunta fama tramite alcuni mercanti, potesse guarirlo da una malattia senza cura. Per ordine del Papa Sisto IV, si trasferì nel paese transalpino, in cui trascorse gli ultimi 25 anni della sua vita, e dove morì, a 91 anni, il venerdì santo 2 aprile del 1507, giorno in cui viene ricordato ancora oggi. Canonizzato nel 1519 da papa Leone X, nel 1943 fu proclamato da Pio XII patrono dei marinai, per via del miracolo dell’attraversamento dello stretto di Messina sul suo mantello. Per la grande benevolenza che dimostrò verso gli umili, specie quelli vessati dagli aragonesi, fu detto il santo della carità, di cui riecheggiano le parole incise sul suo sepolcro: “Il retracto del buon homo quale tenea una gran barba bianca, scarno e d’una faccia grave et piena di santità”. In questo episodio ripercorriamo la storia della singolare amicizia che legò il santo a Martinello, un agnellino dai riccioli candidi che Francesco salvò da morte certa più di una volta.
*
“Martinello! Martinello! Dove sei?”
La voce preoccupata di frate Francesco risuonava attraverso le campagne riarse dal sole, diffondendosi sollecita tra le gole dei monti della Sila che l’implacabile estate calabrese ricopriva di sterpaglie.
L’uomo di Dio sapeva che doveva essere successo qualcosa di grave al suo agnellino: Martinello non si allontanava mai senza di lui, sin da quando, qualche mese prima, nella notte del 20 marzo, aveva visto la luce.
Quella notte, si era ormai alla terza vigilia, frate Francesco, come suo costume, si era levato prima dell’alba per recitare il mattutino. Stava per portarsi sull’inginocchiatoio della capanna che costituiva la sua abitazione, quando la sua attenzione venne attirata da rumori ben inusuali per quell’ora: zoccoli e zampe velocissime scalpitanti sul terreno, il ringhio feroce di Silino, il pastore della Sila a guardia degli armenti, un belato disperato, quindi il crepitio di rami schiantati, un tonfo sordo e un repentino silenzio. Francesco prese la candela e si diresse verso il pruno di fianco alla sua capanna. La luce della candela tra i rami gli rivelò il motivo di tanto trambusto. Sdraiata sul selciato c’era una capretta del gregge dell’eremo palesemente in procinto di partorire, che aveva un profondo squarcio sul fianco, sicuramente inferto da qualche lupo, di cui i monti della Sila pullulavano. La povera bestia era agonizzante, straziata dalla ferita e spossata per il troppo sangue perso, ma Francesco si avvide che il parto era già iniziato, perché oramai spuntava la testolina dell’agnellino che, evidentemente, aveva una gran voglia di venire a questo mondo, nonostante i non proprio migliori auspici.
Il frate si fece il segno della croce e si improvvisò veterinario, e, tanto aiutò la misera capretta che, alle prime luci dell’alba, finalmente, dopo uno spasmo estremo, l’agnellino fu completamente fuori, tutto avvolto nel suo sacco lucido di umori, vivo e sgambettante. Lui nasceva e la madre moriva, stremata dalla ferita e dalla fatica. Francesco fece quanto aveva visto innumerevoli volte fare alle pecore: liberò il piccolo dal sacco amniotico, poi lo frizionò usando le mani come la lingua della madre, quindi si fermò per vedere se il suo estemporaneo metodo avesse funzionato. Il fagottino bagnaticcio si diede uno scossone e, di scatto, si mise prima a carponi e poi, spingendo sulle zampette malferme, iniziò i primi tentativi di mettersi in piedi. Barcollante e spaurito, si guardò intorno, vide la madre esanime, immobile, girò la testolina e vide Francesco, in ginocchio davanti a lui. Il piccolo sembrò capire. Incerto ma deciso, si diresse verso il frate, gli si mise sulle ginocchia e, guardandolo, emise il suo primo flebile, cristallino belato. Lui gli girò un dito tra i riccioli bianchi della testolina, e decise di chiamarlo Martinello, perché il giorno che stava nascendo era il giorno di San Martino, il santo vescovo di Braga, in Pannonia.
Da quella notte incipiente la primavera, i due non si erano più lasciati. Martinello seguiva ovunque Francesco come un cagnolino, infilandosi sotto il suo saio al primo accenno di paura, e il buon frate aveva imparato a distinguere le diverse tonalità dei suoi belati, che digradavano variamente dal timore alla gioia, dalla fame alla soddisfazione.
Verso l’inizio dell’estate, dopo le piogge particolarmente abbondanti di quella primavera, i frati si accorsero che non si potevano più rimandare i lavori strutturali alla cappella dell’eremitaggio: crepe inquietanti che si facevano sempre più lunghe e profonde, calcinacci che piovevano ad ogni acquazzone, muri che scricchiolavano come le giunture del priore. Il fatto è che Francesco l’aveva fatta erigere quando era un giovane frate francescano appena giunto in quella zona impervia dei monti della Sila per condurre una vita da eremita; con l’andare del tempo si erano aggregati sempre nuovi uomini, l’eremitaggio era cresciuto e con esso l’esigenza di una cappella sufficientemente grande e solida.
In un’epoca in cui gli uomini ricercavano l’immortalità attraverso l’imitazione della magnificenza degli antichi greci e latini, e le corti facevano a gara per scolpire i loro nomi nella storia facendosi generose mecenati degli artisti più famosi, Francesco, ispirandosi al poverello d’Assisi, aveva chiamato Minimi i suoi frati, affinché fossero i più piccoli, gli ultimi, gli umili tra gli umili, e dunque degni della regina delle virtù, quella charitas che volle imprimere nello stemma dell’ordine. Ma, a fronte di tanta personale frugalità e semplicità, la casa di Dio, il luogo deputato ad ospitarlo vivente nel tabernacolo e a riproporne quotidianamente il sacrificio doveva rendere testimonianza della sua grandezza e gloria e richiamare chiunque vi entrasse, contadino o pastore, barone o principe, la Bellezza di cui l’anima potrà godere un giorno in Paradiso.
Veder realizzato questo desiderio, quasi fosse un’eredità per i suoi frati, prima di lasciarli per varcare le Alpi, questa fu la sua unica richiesta al Papa, quando gli giunse l’ordine di partire. La sua fama di taumaturgo, infatti, aveva indotto il re Luigi XI, malato inguaribile, a richiederne la presenza al suo capezzale; la cosa fu accolta con grande favore sia dal re di Napoli, sia dal Pontefice, che vedevano nella presenza dell’umile eremita alla corte di Francia una provvidenzialissima occasione per appianare fastidiosi grattacapi: Ferdinando I, aragonese, sperava così di tenere lontane dal suo regno le mire dei Valois; Sisto IV, dal canto suo, intravedeva l’occasione di rimettere in discussione l’indigesta e gallicanissima prammatica sanzione di Bourges del 1438. Ma il loro entusiasmo si era arenato contro il rifiuto categorico di Francesco, il quale non ci pensava neppure di andare a vivere nella corte più ricca e potente d’Europa, di cui ebbero ragione soltanto in virtù dell’obbedienza che l’eremita sentiva di dovere nei confronti del Papa.
E così, in men che non si dica, i remoti monti della Calabria, fino a quel momento visitati solamente dai pastori con i loro armenti o dai contadini che vi salivano per fare legna, raccogliere funghi o recarsi dai frati per una qualche necessità, furono solcati da carovane di uomini a cavallo e di asini che trasportavano ogni ben di Dio, materiale da costruzione, dal legname pregiato, ai marmi di Carrara, stucchi e pietre e colori e vetri, e tutto quello che, senza lesinare e badare a spese, poteva servire per rimettere in sesto la chiesa degli eremiti. Il monte in breve brulicò di maestranze, architetti, pittori, carpentieri e operai, reclutati dai paesi a valle, ben contenti di lasciare i campi per qualche tempo e ricevere una paga lauta e certa, in denaro sonante, monete d’oro e d’argento che mai si erano vedute da quelle parti.
In mezzo a tanto trambusto, non fu sconvolta solo la placida quotidianità dei frati, ma anche gli animali, poco avvezzi al rumore di tanti umani in perpetuo movimento, e tendenzialmente noncuranti della loro presenza, ne risentirono. Le oche si davano un gran daffare per difendere le loro uova e il territorio da quei bipedi voluminosi che invadevano i loro spazi fino a quel momento patria della serenità. Le pecore sembravano restie ad uscire dall’ovile per andare al pascolo e scappavano come un solo corpo a suon di alti belati, ogni volta che ne incrociavano il cammino. Silino, l’integerrimo cane guardiano, mai come in quei giorni si era guadagnato il cibo, ben più copioso e allettante del solito, attirandosi gli improperi e gli accidenti degli operai e dei malcapitati che gli finivano troppo vicino ai denti.
Il povero Martinello era quello più turbato da quel sommovimento, non solo perché temeva tutto quell’andirivieni sconosciuto ed indecifrabile, ma anche perché il suo Francesco non trascorreva più la maggior parte delle ore a pregare su una roccia o nella capanna con lui che, cullato dalla salmodia del canto, se ne stava beatamente accoccolato al suo fianco, ma correva di continuo per rispondere a tutti quelli che lo chiamavano, visionare lo stato dell’arte, risolvere inghippi e imprevisti: tra un priore di qua e un priore di là, Francesco trotterellava costantemente tra massi di marmo e cumuli di pietre, tronchi di alberi e polvere, polvere, tanta polvere, come mai se ne era sollevata da quelle parti, complice l’arida arsura dell’estate calabrese.
Il piccolo agnellino aveva, perciò, preso a starsene acquattato nella penombra rassicurante della capanna di Francesco, appallottolato sul suo giaciglio, aspettando che lui rientrasse, magari con del latte, per sentirgli sospirare, mentre si buttava sfinito sul lettuccio: “Martinello mio, Martinello mio, sapessi che fatica!”. E allora lui gli si avvicinava, rispondendogli con quel belato cristallino e quel suo sguardo umido che avevano il potere di rinfrancare il frate, che gli girava le dita tra i riccioli candidi della testolina.
Se le maestranze si mostravano alquanto indifferenti, al massimo con una punta di malcelato fastidio, per tutte quelle bestie scorrazzanti nel loro cantiere, specie dopo aver assaggiato il becco arancio delle oche, gli operai della valle, invece, accompagnati da immemori generazioni da un’antica, atavica fame, tradivano sguardi bramosi e lupigni al loro indirizzo, di cui il bravo Silino fu il primo ad avvedersi, ed a cui rispose con continue ronde attorno agli animali e ringhi che precedevano l’assalto ogni volta che, a suo insindacabile giudizio, vi si avvicinassero troppo.
Anche Francesco se ne era accorto, e, pur comprendendo che la fame è fame, ed è ben brutta e forte nemica, si era raccomandato con gli operai di non fare del male all’agnellino bianco che erano soliti vedere seguirlo alla stregua di un cagnolino. E quelli, ovviamente, si profusero in promesse e rassicurazioni. E in quel momento ci credevano veramente, anche perché, fatti due conti, il cibo non mancava e poi, a che pro rubare l’agnello del frate che tutti già consideravano un santo vivente, con il rischio di attirarsi le ire del Padreterno nonché delle loro mogli inviperite – immagine forse ancora più terribile – per quella che sarebbe a tutti gli effetti parsa un’empietà? Per quanto sembrasse loro ben strano che Francesco tenesse con sé una bestia inutile, buona solo arrosto, non l’avrebbero di certo toccato: d’altronde, si sa che i santi sono uomini come gli altri soltanto fino ad un certo punto, e, va da sé, una qualche bizzarria poteva benissimo averla.
Ma si sa anche che l’uomo, per quanto in buona fede, è debole per volontà, e reso ladro dall’occasione.
E così, un giorno, vuoi per via di alcuni ritardi subiti dagli approvvigionamenti alimentari, vuoi perché quella mattina il frate era dovuto scendere a valle per alcune faccende, vuoi un lavoro particolarmente pesante che aveva gravato gli operai, vuoi il il caldo, i morsi della fame capaci di trasformare il migliore degli uomini in un lupo famelico, vuoi che l’implacabile Silino si trovasse da tutt’altra parte a fare la guardia al gregge, e, infine, vuoi la gratuita facilità della preda, completamente inerme ed indifesa, quando gli operai si trovarono l’agnellino tutto solo, che brucava un ciuffetto d’erba a fianco della capanna di Francesco, si scambiarono sguardi in silenzio e la decisione fu presa. In un attimo il terrorizzato Martinello, sul cui muso era calata una mano ben diversa da quella carezzevole e premurosa di Francesco, affinché i confratelli non ne sentissero i belati disperati, sparì dalla vista di chiunque, nonché da questa valle di lacrime. Dalla parte opposta all’eremitaggio, infatti, si trovava la fornace, rovente e dal fuoco vivo, nella quale venivano cotti i mattoni. La lama, silenziosa e fulminea, di un coltellaccio, recise la vita della bestiola, mentre ancora si dimenava impazzita tra le braccia del suo rapitore. Un unico belato strozzato e soffocato, e poi tutto finì. Il sangue schizzò copioso e intenso sul terreno, a lordare la polvere e gli abiti di quegli uomini a cui la fame era vestito e pelle.
Due ore dopo di Martinello non rimaneva nulla, se non un senso di quieta satollità nelle pance e negli sguardi placati degli operai, che ritornarono temporaneamente alla lucidità della consapevolezza. Fu necessario farsi branco nuovamente, questa volta secondo l’uso razionale dell’uomo, per decidere la strategia; e si optò, come immaginabile, per un silenzio omertoso e tombale: loro Martinello non lo avevano neppure visto. Dunque, si affrettarono a lanciarne i poveri resti nella fornace, ossa, e pelle, e peli, i riccioli candidi che Francesco attorcigliava attorno alle dita alla sera, quando la stanchezza ingaggiava guerra con il suo desiderio di preghiera. Polvere venne gettata sul sangue nella polvere e sui vestiti. Senza parlare, quasi che le parole potessero dare corpo alla realtà, si limitarono a guardarsi e i loro occhi furono d’accordo: avevano fatto un buon lavoro, nessuna traccia era visibile.
Al suo ritorno, Francesco, sudato e stanco per la fatica della mattinata in città e la salita sotto la calura, entrò nella sua capanna per riposare un momento. Grande fu la sua sorpresa quando si accorse che il giaciglio di Martinello era vuoto. Era davvero strano che la bestiola si allontanasse da sola e in piena controra, per giunta. Un senso di inquietudine gli si insinuò sotto la pelle e si dimenticò di fame, sete, caldo e spossatezza.
Uscì nel sole, implacabilmente alto e potente, e chiese ai suoi confratelli se avessero veduto l’agnellino. Quelli confermarono che, in effetti, era da qualche ora che non lo vedevano, ma non gli avevano dato importanza, certi che fosse, come suo solito, nella capanna del priore. Un giovane novizio, però, gli riferì un particolare di cui si ricordò: verso mezzogiorno, aveva notato Martinello vicino alla capanna intento a brucare, e poi un gruppo di operai passare di lì e, qualche minuto dopo, non c’erano più né l’uno né gli altri.
Francesco, che ben conosceva il cuore degli uomini, intuì subito cosa potesse essere successo, e, senza indugiare un istante, si avviò verso la fornace.
Gli operai, nel veder giungere il frate a passo svelto, con l’aria corrucciata e chiamando per nome la sua bestiola, sentirono tremare le viscere ancora piene dell’animale, e, guardandosi furtivi, si confermarono a vicenda di restare fedeli al loro patto. Così, quando il frate chiese loro se avessero per caso veduto Martinello, quelli risposero all’unisono di no, quindi ripresero con indifferenza a fare il loro lavoro. Francesco li guardò uno ad uno. Nessuno di loro alzò lo sguardo per incontrare il suo, e dov’erano finiti i sorrisi e le battute, o le richieste inincessanti che quegli uomini erano soliti rivolgergli? Quell’inusuale silenzio, quei corpi di spalle e ricurvi ad evitarne il contatto raccontavano inequivocabilmente cosa fosse successo. L’uomo di Dio si sedette sul masso accanto alla fornace, in mezzo ai costruttori di mattoni e si sentì terribilmente solo. E si ricordò che anche il Signore era solo, solo e tradito, quando visse la Sua passione, e questo pensiero gli ricacciò indietro la rabbia che sentiva montare, perché il servo non è superiore al padrone. Dopo qualche minuto, disse: “Io vi aspetto dietro al colle, uno per volta. Vi autorizzo a sospendere il lavoro perché possiate ottenere il perdono di Dio tramite il suo indegno ministro”. Gli operai si videro nudi e colpiti nella loro cecità ferina e provarono la salutare vergogna che ridona dignità.
Francesco aveva ottenuto quello che voleva: che capissero, che provassero rimorso, senza bisogno di miracoli. Ma ora che la loro umanità era stata risvegliata, ora poteva far loro comprendere che non ci si burla delle cose di Dio, che tutto può.
Quindi, alzatosi, si pose di fronte alla fornace, osservò il fuoco che bruciava veemente all’interno e, con tono sicuro, pronunciò queste parole: “Martinello, Martinello mio ricciolino, vieni qui!”. Gli operai si guardarono l’un l’altro, chiedendosi se il sant’uomo non fosse impazzito per il dolore, fatto che li avrebbe fatti sentire ancora più in colpa di quanto già non si sentissero; ma quanto si dovettero ricredere e sforzarsi di non impazzire loro, quando videro, dopo qualche secondo, uscire dal fuoco illeso, integro, belante e felice, il piccolo Martinello, fare un balzo e rifugiarsi tra le braccia di Francesco! Che gli sorrise felice e gli passò le dita tra i riccioli candidi del capo, candidi come se il fuoco non li avesse mai neppure sfiorati. L’agnellino era nuovamente vivo, e completamente dimentico della brutta disavventura appena trascorsa.
Gli operai caddero in ginocchio pallidi, con un senso di angoscia nel cuore che li schiantava a terra, impietriti dall’annichilimento della loro bestiale nullità, e lì rimasero, chiedendo perdono, mentre il frate si allontanava seguito dal piccolo Martinello che gli trotterellava a fianco belando contento.
Pochi mesi dopo la chiesa fu completa e tutta quella turba di uomini scese dal monte, che tornò nella sua calma abituale.
Le oche ripresero a deporre le uova senza dover più difendere il territorio, le pecore avevano ritrovato il gusto di brucare l’erba che l’autunno aveva reso più verde e morbida, e Silino ricominciò a sonnecchiare beatamente al sole, aprendo un occhio di tanto in tanto, forse subodorando la presenza remota di qualche lupo, e pazienza se il cibo era tornato quello più magro di prima della venuta dei forestieri, almeno era ritornata la pace.
Martinello non era più un candido agnellino, ma un giovane capretto curioso del mondo e felice della vita.
Sisto IV, se avesse avuto una valida alternativa, avrebbe ben volentieri lasciato sul suo monte sperduto ai confini della cristianità quello strano eremita che si portava dietro, ovunque andasse, un capretto, senza il quale, aveva detto, lui non avrebbe lasciato il suo eremitaggio, pur con tutto il rispetto, l’ossequio e l’obbedienza che doveva al Santo Padre. Il quale, chiedendo al Padreterno quali peccati stesse scontando in vista di una permanenza meno lunga del dovuto in Purgatorio, pregò, cercando le parole più adatte, le loro Maestà Ferdinando I di Napoli e Luigi XI di Francia di accogliere a corte anche un ovino dal quale il frate non si separava mai.
La mattina del 2 febbraio 1483 la campanella legata al collo di Martinello fu sentita tintinnare in tutta la valle della Sila, mentre lui e frate Francesco camminavano verso l’abitato di Paola, dove l’emissario del re Ferdinando doveva prelevarli per scortarli fino a Napoli, da cui avrebbero poi raggiunto Parigi.
Francesco non si girò a guardare indietro neppure una volta, né si tolse mai il cappuccio che aveva calato sulla testa fino a nascondere il volto, perché tutti, altrimenti, avrebbero potuto leggere il grande dispiacere che il sant’uomo provava nel lasciare la sua terra, e lui non voleva gravare gli animi dei suoi frati e degli abitanti della valle, già colmi di tristezza. Soltanto quando giunse in fondo alla strada si fermò per guardare in alto, verso l’eremitaggio. La chiesa si vedeva anche da laggiù, bella e forte come l’aveva voluta. Il vecchio eremita sorrise e si disse che sì, in fondo ogni cosa era al suo posto.
________________________
Le precedenti puntate di Santi e animali
Don Bosco e il Grigio
San Benedetto e il corvo
San Romedio e l’orso
San Gerasimo e il leone
Sant’Uberto e il cervo
Sant’Antonio e l’asina
San Francesco e il lupo
Santa Colomba e l’orsa
San Martino de Porres e la clinica veterinaria
San Martino de Porres e il piatto
San Martino de Porres, i topi e il mulo
San Serafino e l’orso
San Matino di Tours e le oche