Un cantante, il profitto, la lotta di classe

di Vincenzo Rizza

Caro Aldo Maria,

in occasione della festa dei lavoratori la stampa ha dato grande risalto alla lettera che un sindacato Uiltucs ha inviato a un cantante reo di aver prestato la propria immagine in favore di una nota catena di fast food.

Il sindacato chiede al cantante – da anni impegnato “per la tutela dei diritti umani, per i diritti delle persone abbandonate nelle carceri, per aiutare i bambini negli ospedali, per i ragazzi nelle comunità, per chi non ha una casa, per coloro che sono rimasti senza lavoro, per chiunque abbia bisogno di aiuto e per essere artefice e partecipe, nel mio piccolo, di una rivoluzione per cui la condizione sociale, culturale e umana delle classi deboli e discriminate possa cambiare definitivamente” e protagonista anche quest’anno del concerto del primo maggio – di appoggiare la protesta dei lavoratori contro la multinazionale americana.

Mi ha colpito un passaggio della lettera in cui il sindacato, premesso che non intende “ribellarsi a un sistema” ma rivendicare il diritto a “una contrattazione aziendale decentrata che riconosca dignità, condizioni di lavoro e salario variabile legato alla produttività a chi, ogni giorno, tiene in piedi i ristoranti del brand che oggi ti vede protagonista”, fa riferimento alla circostanza che quel brand “anche grazie a te vedrà aumentare i propri profitti”.

Seppure non esplicito, vedo in quel malizioso riferimento all’aumento dei profitti un pregiudizio nei confronti del sistema. Il profitto come sfruttamento del lavoro salariato e non, come insegna anche la dottrina sociale della Chiesa (quanto meno quella precedente al pontificato di Francesco), come “indicatore del buon andamento dell’azienda: quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti”; il profitto come regolatore della vita dell’azienda anche se non l’unico in quanto “ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa” (così l’enciclica Centesimus annus di san Giovanni Paolo II).

Il sindacato legittimamente persegue il miglioramento delle condizioni dei lavoratori a esso iscritti; condizioni sia in termini economici che di qualità di vita. Tale obiettivo, tuttavia, presuppone un’azienda sana che produca profitto e sia, quindi, in condizione di assicurare quel miglioramento. In mancanza di profitti, quell’azienda è destinata al fallimento e i suoi lavoratori sono destinati al licenziamento. Sennonché, anziché esultare per il possibile incremento del profitto dovuto a un testimonial che (per me, sia chiaro, inspiegabilmente) può attirare più clienti, il sindacato sembra dolersi del successo della campagna promozionale, comportandosi di fatto alla stregua di un concorrente che aspira a espellere dal mercato un pericoloso rivale.

Sembra quasi un ritorno alla lotta di classe, fuori tempo e fuori luogo. Tanto più se solo si considera che dalla stessa lettera del sindacato emerge come l’azienda in realtà applichi il contratto nazionale e la mobilitazione dei dipendenti sia legittimamente volta a ottenere diritti che vadano oltre il minimo previsto da quel contratto.

Quanto al cantante, francamente non mi stupisce la disinvoltura con cui artisti o presunti tali si stracciano le vesti (in molti casi non solo metaforicamente, visti i look eufemisticamente minimal che spesso esibiscono) a difesa, a parole, delle cause più disparate (dallo sfruttamento dei lavoratori al patriarcato, dalla difesa del clima alla tutela dell’ambiente), salvo poi tenere comportamenti poco coerenti, quando non incompatibili con i nobili propositi dichiarati. D’altro canto se il cuore batte a sinistra, il portafoglio è saldamente posizionato a destra. E se è vero che al cuor non si comanda è altrettanto vero che al portafoglio si obbedisce.

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Foto da ilfattoquotidiano.it

 

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