Oltre le contrapposizioni. Sulla presenza del Mistero, la verità liturgica e l’unità della Chiesa

di Armin Schwibach

La tentazione del nostro tempo consiste nel classificare la realtà ecclesiale secondo fazioni. Progressisti contro retrogradi, aperti contro rigidi, riformatori contro legati alla tradizione. Queste contrapposizioni sono troppo schematiche per essere vere. Possono forse funzionare nel campo politico, ma spiritualmente sono abbastanza vuote. Perché ciò che conta nella Chiesa non è la posizione, ma l’orientamento: coram Deo, davanti a Dio. Ed è lì che le false dicotomie si dissolvono. Lì si decide se qualcosa nasce dalla verità oppure da sé stessi.

Joseph Ratzinger ha messo in guardia fin da principio dal ridurre l’essenza della Chiesa a categorie sociologiche. La Chiesa non è il risultato di dinamiche storiche, ma è “mistero che vive dell’Eucaristia”. Le categorie con cui oggi si descrive la realtà ecclesiale spesso nascono da uno sguardo che non conosce più il sacro. Ma là dove il Mistero diventa sospetto la liturgia si trasforma in palcoscenico, e la fede in opinione. Eppure la Chiesa non vive di opinioni. Vive della Parola fattasi carne, e della risposta che le viene data: l’adorazione. “Non in commotione Dominus”, il Signore non è nel rumore, ma nel silenzio, nell’offerta, nel fiat della Vergine, che la Chiesa ripete in ogni Eucaristia.

Agostino dice: “Veritas non est nostra, sed supra nos”, la verità non è nostra, ci sovrasta. E questa verità ha un luogo: è presente nel Signore eucaristico. Così la liturgia – la liturgia autentica – non è espressione di creatività “religiosa”, ma manifestazione del ricevere. “La liturgia non si fabbrica”, dice Ratzinger, bensì “cresce dalla fede viva della Chiesa”. Per questo la cosiddetta “Messa antica” non è semplicemente una forma tra le altre, ma uno spazio di memoria vivente, un corpo spirituale in cui la Chiesa si riconosce sub specie aeternitatis. Ciò che in essa tocca il cuore non è un’estetica, ma la profondità che sfugge al possesso. Essa costringe al rispetto, non al controllo. Manifesta ciò che Tommaso d’Aquino chiama convenientia divinae sapientiae, la “convenienza della sapienza divina”. Nulla è arbitrario, nulla è casuale. In tutto risplende – se impariamo a vedere – l’ordine del sacro. Non siamo noi i padroni di questo spazio. Possiamo solo inginocchiarci, ascoltare, ricevere.

Proprio questo oggi viene spesso bollato come atteggiamento “retrogrado” o “indietrista”, perché si è dimenticato che la verità implica vincolo. Che l’amore implica sempre anche obbedienza, non come costrizione, ma come accordo libero con ciò che ci trascende. Il problema vero, dunque, non è il rifiuto di un certo rito liturgico, ma l’indebolimento della coscienza liturgica in quanto tale.

Le polarizzazioni ecclesiali odierne non colgono questa realtà. Si muovono con griglie culturali relative, dove servirebbe discernimento spirituale. Chi si avvicina alla cosiddetta liturgia tradizionale viene spesso sospettato di ideologia, come se cercasse un ritorno politico. Ma ciò che molti cercano in quella forma non è il passato, bensì la presenza viva di Cristo. E lo fanno – spesso in silenzio, spesso sotto accusa – con una sete che va oltre ogni argomento.

Ratzinger conosceva bene questa tensione. Parlava di una riconciliazione con la propria storia, senza ritorni esteriori. Cercava ciò che è “comune e portante”, non per compromesso, ma per radicamento: nel perenne dentro il temporale, nella misura dei padri, nella santità dei segni. Agostino lo diceva così: “In laudibus Dei, totus sit homo”. Nella lode di Dio, l’uomo intero sia presente. Non nella divisione, non nella dispersione, ma nella raccolta unità del cuore, del corpo e della voce. La guarigione non verrà da nuove fazioni, né da nuovi slogan o da nuovi equilibri. Verrà solo da un ritorno a Colui che è veritas e via, che si dona a noi nel pane che è più che segno: presenza del Crocifisso, amore incarnato.

È qui – nella liturgia – che tutto si decide. Non in superficie, ma nella profondità. Non nel conflitto, ma nell’adorazione. E lì – ad orientem, rivolti a Lui – la Chiesa è una. O non è.

In tempi di smarrimento, la liturgia tradizionale non è semplicemente un’alternativa: è un’ancora. Non si difende perché piace, ma perché salva. Perché, come afferma il Concilio di Trento, “in Missa idem ille Christus continetur ac incruento modo immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit”. Nella Messa è contenuto e offerto in modo incruento lo stesso Cristo che sulla Croce si offrì in modo cruento (Denzinger-Hünermann 1743). Questa verità, custodita in ogni piega del rito antico, non è un’opinione tra le altre, ma la roccia da cui sgorga l’identità cattolica. È la Messa che ha generato i santi, plasmato la teologia, edificato le cattedrali e vinto i demoni. È il cuore pulsante della Tradizione viva, dove la fede si inginocchia, non si reinventa.

San Leone Magno lo disse con potenza: “Quod in Christo visibile fuit, in sacramenta transivit”. Ciò che fu visibile in Cristo è passato nei sacramenti (Sermo 74,2). Ed è proprio in quella visibilità sacramentale che la liturgia antica custodisce la carne del Verbo, il Suo abbassamento e la Sua gloria. San Gregorio Magno, che raccolse e trasmise l’ordo della Messa romana, testimoniava che “l’antica regola dei Padri si mantiene ancora nella Chiesa, per cui il sacrificio è offerto in modo degno e puro” (cfr. Dialoghi IV, 58). In lui, la liturgia non era archeologia, ma custodia del mistero vivente.

Chi oggi la tocca con riverenza tocca un nervo profondo del Corpo mistico. E chi la onora partecipa – oggi come ieri – a quella lex orandi che è già lex credendi. In essa tutto parla di Dio. Nulla distrae, nulla divide. Là dove essa è celebrata con timore e amore, la Chiesa non è un esperimento umano, ma l’Arca del Santo.

Il futuro appartiene a chi sa portare il fuoco, non a chi lo spegne.

 

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