Dibattito / La possibile caduta di Teheran e le ragioni di Israele

di Vincenzo Rizza

Caro Aldo Maria,

l’articolo di Martino Mora [qui] sulle possibili conseguenze della caduta del regime degli ayatollah non mi trova d’accordo.

Secondo Mora la caduta di Teheran sarebbe un disastro geopolitico, la vittoria del «Mare» sulla «Terra», della globalizzazione tecnico-mercantile e del mondialismo american-sionista sul radicamento, sull’identità e sulla tradizione.

Secondo questa visione, la teocrazia iraniana diventa baluardo di un «mondo multipolare», come se fomentare il terrorismo, giustiziare gli oppositori, impiccare gli omosessuali e obbligare le donne a portare il velo significhi difendere la civiltà.

La penso diversamente.

Se cade Teheran cade una delle peggiori dittature del pianeta.

Se cade Teheran cade un regime che da oltre quarant’anni opprime il suo stesso popolo in nome di un fondamentalismo religioso totalitario, che ha trasformato la fede in arma, e la legge islamica in manganello.

Se cade Teheran cade uno dei principali finanziatori del terrorismo internazionale.

Chi oggi si preoccupa per la caduta di Teheran dovrebbe farsi una semplice domanda: in che mondo vivremmo se i pasdaran fossero al potere a Washington, Parigi, Berlino o Roma? Perché in Iran lo sono. E il risultato è quello che vediamo: tortura, repressione, giustizia arbitraria, una politica estera fondata sulla destabilizzazione.

L’Iran non è semplicemente un regime illiberale: è il principale sponsor del terrorismo islamico, e non lo fa nemmeno di nascosto. Finanzia Hezbollah, arma Hamas, diffonde la jihad in Medio Oriente come se fosse un marchio da esportazione. E il bersaglio privilegiato, ossessivo, ricorrente è innanzitutto Israele.

Israele, il Paese di cui ci si dimentica sempre un dettaglio essenziale: nel bene e nel male è l’unica democrazia reale, con i suoi pregi e anche i suoi tantissimi difetti, del Medio Oriente. Con tutte le sue contraddizioni, i suoi problemi, i suoi eccessi. L’unico dove esistono (e si leggono) giornali che liberamente attaccano il governo ogni giorno.

Eppure, è proprio Israele il nemico pubblico numero uno per certi analisti. Forse perché incarna ciò che non si tollera: una democrazia occidentale che resiste, armata, in un mondo che la vuole annientare.

Vorrei vedere chi oggi accusa Israele di essere l’aggressore vivere sotto il tiro quotidiano dei razzi di Hamas, con il vicino che giura di volerti cancellare dalla mappa e l’Onu che gli strizza l’occhio. Vorrei vedere i paladini del multipolarismo ideologico gestire la sicurezza nazionale sapendo che dall’altra parte del confine c’è un regime come quello iraniano che invia droni e denaro ai tuoi nemici giurati: la difesa non è un lusso, ma una necessità. Sicuramente ci sono errori e orrori in ogni guerra, e anche Israele non è esente da responsabilità; lotta, tuttavia, quotidianamente contro chi vorrebbe completare il disegno iniziato il secolo scorso da un politico austriaco nazionalizzato tedesco, che diventato fuhrer cercò di attuare la soluzione finale.

La guerra fa necessariamente dei morti, i quali, pochi o molti che siano, sono sempre e comunque una suprema iniquità; tanto più se il nemico, con criminale vigliaccheria, notoriamente nasconde i suoi arsenali nelle città, all’interno delle abitazioni, degli ospedali e delle scuole. Nondimeno, talvolta, purtroppo, si tratta di un’iniquità inevitabile per chi, come accade agli israeliani, la guerra è costretto a subirla e non ha altra alternativa, per difendere la propria sopravvivenza, che rendere l’aggressore quanto più possibile inoffensivo.

In verità per molti gli ebrei sono da compiangere solo quando facevano gli agnelli sacrificali della ferocia nazista. Quando, viceversa, l’olocausto viene teorizzato e conclamato da chi trova consenso e comprensione nel pauperismo antioccidentale, a essere vituperati sono gli ebrei di oggi, apparentati ai nazisti se si rifiutano d’incarnare lo stereotipo delle vittime sacrificali.

Israele, insomma, reagendo, ha rovinato la festa a coloro che amano compiangere il mite ebreo solo quando si lascia gasare dal nazista, ma considerano delittuoso il comportamento di quello stesso ebreo quando, invece di farsi ammazzare senza far tante storie, si ribella al fanatismo arabo che, esattamente come il nazismo, tenta, con ogni utile sistema, di cancellarlo dalla faccia della terra.

Naturalmente il recente attacco all’Iran crea un nuovo problema, che andrebbe affrontato senza retorica: chi subentrerebbe se Teheran dovesse cadere davvero? La storia insegna che il vuoto lasciato da una dittatura non è sempre riempito da una democrazia (con tutti i suoi limiti). A volte arrivano mostri peggiori. Il rischio che nuove fazioni — magari ancora più fanatiche, ancora più violente — si contendano il potere, è reale. Questa, tuttavia, non mi sembra una ragione per legittimare il presente. È una ragione in più per prepararsi al dopo con lucidità, senza farsi incantare dalla propaganda né da utopie geopolitiche. E se la caduta di Teheran dovesse mettere fine a uno dei centri mondiali del terrorismo islamico, ben venga. Perché il mondo sarà anche imperfetto, ma senza Teheran armata e fanatica sarà un po’ meno ipocrita. E un po’ più libero.

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