
Un giovane in ginocchio e la teologia del nulla. Investigatore Biblico risponde al teologo Grillo
Il teologo Andrea Grillo ha scritto un intervento severo [qui] sulla figura di Carlo Acutis soffermandosi in particolare sull’interpretazione eucaristica proposta attraverso la mostra dei miracoli eucaristici, realizzata da Carlo in giovane età. È un testo che merita una risposta non tanto per difendere la santità del giovane — che non ha bisogno di difensori — quanto per correggere una prospettiva teologica che rischia di cadere in un paradossale intellettualismo: quello che riconosce la centralità dell’Eucaristia solo a patto che venga comunicata in un linguaggio conforme a determinati parametri accademici, mentre si dimentica che la verità non si lascia rinchiudere nei registri del linguaggio colto, ma si rivela nella libertà dello Spirito.
Carlo Acutis è stato un ragazzo. E la Chiesa lo ha riconosciuto beato non per la sua sistematica teologica, ma per la coerenza con cui ha vissuto il Vangelo, per l’amore che ha portato all’Eucaristia, per la carità che ha saputo esercitare nel silenzio, per la capacità — rara, nel nostro tempo — di orientare la sua vita interamente a Dio. È legittimo chiedersi quale immagine di Eucaristia egli abbia trasmesso e se essa fosse perfettamente armonizzata con le acquisizioni teologiche postconciliari. Ma è anche legittimo domandarsi, in modo altrettanto onesto: quale annuncio poteva parlare davvero al cuore di un giovane del nostro tempo?
Siamo in un’epoca in cui intere generazioni vivono la propria adolescenza e giovinezza senza mai avvertire il bisogno di varcare la soglia di una chiesa. La solitudine abita le stanze dei ragazzi. L’angoscia, la dipendenza, la violenza, la noia e l’assenza di senso segnano i volti e i corpi di milioni di giovani che non trovano adulti capaci di risposte. Davanti a questo scenario, il fatto che un ragazzo abbia scoperto, nell’Eucaristia, la fonte di una Presenza viva, concreta, reale, che ha cambiato la sua vita, dovrebbe essere accolto con gratitudine e non con sospetto. E se questa scoperta è passata anche attraverso il segno, lo stupore, persino la ricerca di ciò che per altri è devoto o ingenuo, ciò non sminuisce l’autenticità della sua esperienza.
Gesù stesso ha accolto la fede semplice di chi cercava un segno. Ai discepoli di Emmaus ha parlato nel gesto del pane spezzato, non in un trattato. A Tommaso ha offerto le sue piaghe. Ha dato da mangiare a folle che non capivano, e ha detto: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51). Il cammino della fede non inizia sempre dalla piena comprensione, ma da un incontro. E l’incontro, per Carlo, è avvenuto proprio lì: davanti all’altare, davanti all’ostensorio, davanti a quella Presenza che lo affascinava e che voleva condividere.
C’è chi ha definito tutto questo una “teologia vecchia, ossessiva, inessenziale”. Ma forse è mancato il coraggio di chiedersi se la vera inessenzialità non sia proprio quella che si rifugia nella categoria della “teologia matura” per evitare il confronto con la fame autentica dei giovani di oggi. Quale sarebbe stata la proposta alternativa? Una catechesi strutturata, un discorso sulla ministerialità, un’introduzione alla riforma del Messale? Ma i giovani non chiedono trattati. Chiedono vita. Chiedono verità. Chiedono fuoco. E se Carlo ha mostrato un amore incandescente per l’Eucaristia, anche con tratti parziali e forse semplicistici, non ha fatto altro che testimoniare ciò che il Vangelo domanda: la fede che ama, la fede che muove, la fede che adora.
Scriveva Antonio Fogazzaro: “La verità del Vangelo non è una formula, è una fiamma. E se la tocchi con mani impure, si spegne; ma se un’anima pura l’accoglie, arde e illumina”. Carlo non ha preteso di spiegare il mistero; l’ha lasciato parlare. E proprio per questo ha saputo comunicarlo meglio di molti trattati.
I miracoli eucaristici non sono oggetto di fede, come correttamente scrive monsignor Martinelli. Ma possono essere strumenti, segni, linguaggi che introducono al mistero. Sant’Agostino — che conosceva bene la differenza tra simbolo e realtà — scriveva che “quando vedi l’altare preparato, sappi che lì è Cristo che si offre”. E ancora: “Se voi siete il corpo di Cristo e le sue membra, ciò che è posto sull’altare è il mistero di voi stessi”. La verità eucaristica è dunque al tempo stesso adorazione del Signore presente e riconoscimento del suo Corpo nella Chiesa. Ma è un errore contrapporre questi due aspetti. Carlo li ha vissuti entrambi: ha adorato Cristo e ha servito i poveri; ha creduto nella presenza reale e ha coltivato relazioni fraterne; ha comunicato ciò che vedeva e amava, con i mezzi di cui disponeva.
Ernesto Buonaiuti, nelle sue “Lettere di un prete modernista”, scriveva che “il vero problema della Chiesa è che ha smesso di parlare ai vivi per parlare solo ai morti”. È una frase forte, ma può essere capovolta oggi con frutto: quando la Chiesa accoglie e ascolta i giovani vivi, come Carlo, quando non ha paura di lasciarsi evangelizzare dalla loro freschezza, allora si apre davvero al Vangelo. In un altro suo scritto annotava: “Non esiste teologia che possa sostituire l’urgenza dell’incontro personale con Dio, là dove l’anima si lascia toccare dal mistero.” Carlo, davanti all’Eucaristia, ha vissuto questa urgenza spirituale.
Don Milani, in una lettera ai suoi ragazzi, diceva: “Io non ho avuto che una cosa da insegnarvi: il senso dell’assoluto”. Carlo ha trovato quell’assoluto nell’Eucaristia. E non gli è stato imposto. L’ha cercato. L’ha desiderato. L’ha scelto.
Anche i modernisti italiani, spesso fraintesi e condannati più per clima ecclesiale che per veri errori dottrinali, non avrebbero mai disprezzato la pietà genuina. Buonaiuti, Minocchi, Antonio Fogazzaro stesso — nomi spesso pronunciati con sospetto — non si sarebbero mai sognati di deridere un giovane che si inginocchia davanti all’Eucaristia. Anzi, in una Chiesa che si andava secolarizzando, avrebbero visto in quel gesto un segno profetico, una testimonianza non “infantile” ma “elevata”, cioè fondata sull’essenziale. Forse più vicina a Dio di molte parole dotte.
Giuseppe Ricciotti, uno dei biblisti italiani più profondi del secolo scorso, scriveva: “Il Vangelo non si capisce per dissertazione, ma per attrazione. Il cuore dell’uomo semplice, quando è puro, capisce più del dotto.” Carlo, con la purezza di un ragazzo, ha capito e vissuto ciò che molti leggono ma non vedono.
E ancora, Alfred Loisy, spesso ricordato solo per le sue tensioni con il magistero, aveva intuito che “la fede che non sa parlare all’anima che cerca, non è fede: è sistema”. Carlo non ha scritto un sistema. Ma ha parlato all’anima che cerca. E oggi, più che mai, c’è bisogno di questo.
Karl Rahner, in una delle sue riflessioni più essenziali, ha scritto: “Il cristiano del futuro o sarà un mistico — uno che ha fatto esperienza di qualcosa — o non sarà nulla”. Carlo è stato un mistico adolescente. Uno che ha fatto esperienza. E l’ha comunicata con mezzi poveri ma veri. Chi lo accusa di aver trasmesso una teologia lacunosa dovrebbe prima chiedersi se sta aiutando oggi qualcuno, davvero, a fare esperienza del Dio vivente. E se non lo fa, dovrebbe ascoltare in silenzio chi, anche solo per un istante, l’ha fatto.
Il problema non è Carlo, ma lo sguardo che non sa più vedere la grazia. L’occhio che ha disimparato a contemplare. Il cuore che si scandalizza per la pietà semplice più di quanto si scandalizzi per l’indifferenza colpevole. Carlo non è un teologo, ma non è nemmeno uno che ha banalizzato l’Eucaristia. L’ha amata. E questo — in un mondo che disprezza il sacro — è già una parola profonda.
Il Vangelo ci ammonisce: “Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,16). E i frutti, nella vita di Carlo, sono evidenti. Il resto verrà. La teologia può attendere. La santità, invece, è sempre urgente.