
Opinione / Mora: «La teologia politica di Leone XIV, una resa all’ideologia delle Nazioni Unite»
di Martino Mora
Ho letto con sgomento il discorso di Rober Prevost, Leone XIV, ai politici italiani e stranieri, in occasione del Giubileo dei governanti (sabato 21 giugno 2025). È un vero manifesto di teologia politica liberale riverniciata con concetti cattolici e tomistici. È l’ideologia individualista e mondialista delle Nazioni Unite riproposta con termini estrapolati dalla tradizione patristica e tomista, ma svuotati dal loro significato. È un perfetto manifesto di «americanismo», nella definizione del suo predecessore Leone XIII.
Entriamo nel merito. Dopo aver giustamente fatto appello a quello che dovrebbe essere il compito della buona politica, cioè «il bene della comunità», Prevost ha immediatamente fatto riferimento ai principi della «libertà religiosa» e del «dialogo interreligioso». Essi tuttavia escludono in tutta evidenza qualsiasi difesa dell’unità religiosa cattolica dei popoli, che viene sottomessa al principio individualista della libera scelta. Tutto il magistero cattolico precedente al Concilio Vaticano II insegna invece che il primo bene comune delle comunità politiche è proprio l’unità religiosa.
È più che lecito quindi dedurre che quando Prevost parla di «bene della comunità» non si riferisca all’unità religiosa. Ma come può un Pontefice subordinare così platealmente l’unità religiosa, cioè il primo bene spirituale, ai valori materiali? Non a caso l’unico esempio fatto da Prevost a proposito di una politica contraria al bene comune riguarda «l’inaccettabile sproporzione tra una ricchezza posseduta da pochi e una povertà estesa oltremisura». Cosa verissima, ma che oltre a comportare una critica del capitalismo e della plutocrazia (che invece Prevost non fa) viene dopo, per ordine di importanza, la questione religiosa.
Esiste infatti un ordine gerarchico dei beni e dei mali. Quelli di ordine materiale, cioè economico, per quanto importanti, vengono dopo quelli di natura spirituale. Non è forse proprio l’errore del mondo moderno avere invertito i fini, assolutizzando i valori materiali a discapito di quelli spirituali?
Inoltre, la «libertà religiosa» (cosa diversa dalla legittima tolleranza) individualista, presuppone lo Stato liberale moderno, «laico», cioè assiologicamente e religiosamente neutrale, che non può e non vuole proporre Cristo come Verità e vita.
Ma il meglio, anzi il peggio, deve ancora venire. Dopo aver trasformato sant’Agostino e il passaggio «dall’amor Sui all’amor Dei» in un sostegno alla «libertà religiosa» e all’«ecumenismo” (concetti completamente estranei al pensiero e all’orizzonte culturale del Santo di Ippona), Prevost esalta il valore della «legge naturale». Un passaggio che estrapolato da tutto il resto del discorso ha mandato in estasi i commentatori dei media «conservatori».
Citando il Cicerone del «De Republica», Prevost sottolinea l’immutabilità e l’universalità della legge naturale. Bravo, bene, bis. I media teocons sono andati in brodo di giuggiole. Gli basta poco.
Ma subito dopo il pontefice aggiunge: «La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata e proclamata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, appartiene ormai al patrimonio culturale dell’umanità. Quel testo, sempre attuale, può contribuire non poco a mettere la persona umana, nella sua inviolabile integralità, a fondamento della ricerca della verità, per restituire dignità a chi non si sente rispettato nel proprio intimo e nelle esigenze della propria coscienza».
Insomma: per Prevost la legge naturale coincide, o perlomeno trova buona espressione, nei diritti umani delle Nazioni Unite. Che dire? C’è da mettersi le mani nei capelli.
È la solita confusione voluta, tipica dei pontefici conciliari e post-conciliari, tra il diritto naturale classico e tomista e il diritto naturale moderno, individualista e soggettivista. Ma che questo errore sia stato fatto da tutti i pontefici conciliari non giustifica il fatto che Prevost lo riproponga.
Fu Giovanni XXIII il primo a sdoganare apertamente, nell’enciclica «Pacem in Terris» (1963) l’ideologia dei diritti dell’uomo, pur esprimendo ancora qualche riserva. Da Paolo VI in poi, tutti i pontefici si sono sottomessi a quest’ideologia antropocentrica, previo pellegrinaggio al palazzo delle Nazioni Unite. Pellegrinaggio compiuto da Paolo VI, Giovanni Paolo II (ben due volte), Benedetto XVI, e naturalmente anche Bergoglio.
Purtroppo questa ideologia soggettivista, antropocentrica, individualista e atomista è incompatibile tanto con la religione cattolica quanto con la legge naturale classica e medioevale.
Esattamente come la «libertà religiosa» (cosa diversa dalla legittima tolleranza religiosa), l’ideologia moderna dei diritti umani si basa su un’antropologia erronea, come qui in «Duc in altum» ha messo in luce anche il professor Daniele Trabucco, eminente giurista.
Si tratta, ha scritto magistralmente Trabucco, «di diritto svincolato dalla teleologia naturale e ridotto a dichiarazione di prerogative individuali». Ciò che differenzia infatti il giusnaturalismo moderno dal giusnaturalismo classico e medioevale è proprio il rifiuto, tipico del pensiero moderno, di qualsiasi riferimento teleologico ai fini delle creature all’interno di un ordine naturale voluto da Dio.
Non solo: i diritti dell’uomo postulano, da Grozio e Locke in poi, un soggetto atomizzato (l’individuo) dall’esistenza pre-sociale e pre-politica, secolarizzato e desacralizzato.
Ma l’uomo non è un atomo, non è un essere desocializzato e desacralizzato, privo di trascendenza e di un ordine naturale nel quale riconosca le sue finalità. Ha appartenenze costitutive, ha una natura sociale, comunitaria, del tutto complementare a quella di creatura aperta alla Trascendenza.
Dall’ antropologia atomistica erronea, figlia di una concezione materialista e individualista dell’esistenza, non può che nascere una politica erronea. In questo caso quella del liberalismo.
Concludendo: la teologia politica di Robert Prevost è chiaramente inficiata dal liberalismo e dall’americanismo, che proprio Leone XIII condannò nell’enciclica «Libertas» (1888) e nella lettera all’arcivescovo di Baltimora (1899). Quindi dal modernismo. I fondamenti ideologici (non religiosi ma ideologici) di Leone XIV capovolgono Leone XIII e il magistero di sempre. Così come lo stesso pontefice agostiniano distorce in senso modernista e soggettivista la dottrina autenticamente agostiniana delle due Città, associandola all’ecumenismo e al laicismo. Siamo alla parodia, al simulacro.
Purtroppo nel discorso ai politici di Leone XIV di veramente cattolico, sotto la superficie delle parole, non c’è quasi niente. È brutto doverlo dire, ma è così. Di non cattolico o anticattolico c’è invece parecchio. La secolarizzazione divora la Chiesa dall’interno.
«Sotto il vestito niente» era il titolo di un film degli anni Ottanta. Sotto la stola e la mozzetta niente (o comunque assai poco), potremmo parafrasare oggi.
Se le premesse ideologiche della teologia politica di Prevost sono queste, ci attende con ogni probabilità un lungo e doloroso pontificato di autodemolizione. L’ennesimo dal 1958. La crisi della Chiesa continuerà. Forse un po’ più lenta rispetto agli ultimi anni, e riverniciata di riferimenti superficiali alla Chiesa di sempre (Agostino, Leone, legge naturale, stola e mozzetta, qualche riferimento mariano e alla famiglia), dietro ai quali si nasconde, di fatto – è doloroso riconoscerlo – la resa all’ideologia dominante anticristiana e antiumana della Nazioni Unite e del liberalcapitalismo egemone davosiano.
Finché Dio non ne avrà abbastanza.