
L’inganno della difesa «senza costo»
di Daniele Trabucco*
L’affermazione del presidente del Consiglio dei ministri pro tempore Giorgia Meloni, secondo cui l’aumento delle spese militari «non toglie un euro dalle priorità» si rivela, alla prova dell’analisi giuridica, economica e filosofica, non solo imprecisa, ma strutturalmente fallace. L’idea che una riallocazione così significativa di risorse pubbliche possa avvenire senza alcun impatto sulle politiche sociali e sui settori strategici dello Stato è una negazione dei principi fondamentali della contabilità pubblica, dell’economia normativa e della teoria costituzionale.
L’occasione del recente vertice Nato dell’Aja (giugno 2025), che ha visto l’approvazione di un documento politico volto a portare progressivamente la spesa militare degli Stati membri al 5% del Pil entro il 2035, rende tale affermazione ancora più insostenibile, alla luce delle sue implicazioni sistemiche. Il documento adottato a L’Aja stabilisce un obiettivo ambizioso: allocare almeno il 3,5% del prodotto interno lordo alle spese militari in senso stretto (armi, munizioni, personale, operazioni), con un ulteriore 1,5% dedicato a infrastrutture militari dual use, ovvero difesa cibernetica e mobilità strategica. Si tratta, con ogni evidenza, di una soglia senza precedenti per la spesa militare nel contesto europeo contemporaneo.
Pur prevedendo clausole di flessibilità, l’obiettivo è concepito come vincolante per gli Stati membri e non potrà che comportare, da qui al 2035, effetti sulle leggi di bilancio, imponendo nuove priorità di spesa.
Sul piano giuridico, tale orientamento collide con l’architettura costituzionale italiana. L’art. 81 della Costituzione vigente impone un equilibrio tra entrate e uscite nel bilancio dello Stato, con un vincolo di sostenibilità del debito e di efficienza nella spesa. Ogni incremento strutturale di spesa pubblica, per essere legittimo, deve trovare copertura finanziaria compatibile con l’insieme delle esigenze collettive. In tal senso, destinare fino al 5% del Pil alla spesa militare significa comprimere inevitabilmente gli spazi di bilancio riservati a settori costituzionalmente protetti, come la sanità (art. 32 Cost.), l’istruzione (art. 33-34 Cost.), la previdenza (art. 38 Cost.), alterando l’ordine gerarchico dei diritti e la proporzionalità delle scelte allocative.
Dal punto di vista economico, le implicazioni sono altrettanto critiche. L’aumento delle spese per la difesa non genera un moltiplicatore espansivo paragonabile a quello prodotto da investimenti in capitale umano o in infrastrutture civili. Al contrario, come mostrano numerose ricerche in economia pubblica, le spese militari presentano un elevato effetto crowding out, ossia di esclusione competitiva di altre spese pubbliche più produttive. In un contesto di debito pubblico elevato e di limitate capacità di prelievo fiscale, ogni spostamento strutturale di risorse verso la funzione militare implica una sottrazione concreta di risorse per investimenti a più alta redditività sociale. Inoltre, il principio economico della scarsità implica che ogni scelta pubblica sia anche una rinuncia: affermare che l’incremento delle spese militari non toglie nulla ad altri ambiti equivale a negare uno dei fondamenti dell’azione pubblica, ovvero la necessità di selezionare priorità all’interno di un vincolo di bilancio.
L’idea di una spesa militare «neutrale» sul piano della distribuzione del reddito e delle risorse è, dunque, una finzione retorica, funzionale a mascherare un indirizzo politico ben preciso: quello di ricollocare la funzione statuale attorno all’asse della sicurezza militare, a scapito della funzione sociale.
Su un piano filosofico più profondo, l’intera retorica della «spesa necessaria» per la difesa tradisce un’idea regressiva dello Stato. La sovranità (concetto moderno fortemente problematico) non si esaurisce nella potenza militare, né la sicurezza è assicurata dal solo incremento degli armamenti. Una concezione classica e giusnaturalistica dello Stato, fondata sull’ordinamento della ragione e sul primato del bene comune, impone di valutare ogni atto pubblico alla luce della sua conformità alla giustizia. Ora, uno Stato che si arma mentre inevitabilmente è costretto a tagliare, dequalifica o trascura i propri doveri essenziali nei confronti delle persone (educazione, salute, assistenza), si allontana dal proprio fine e tradisce la propria funzione. Il potenziamento della spesa militare non è mai un atto neutro: trasforma l’ethos pubblico, modifica le priorità collettive, riconfigura l’idea stessa di comunità politica. Il passaggio dalla centralità della persona alla centralità della difesa, dal cittadino al soldato, dallo Stato sociale allo Stato strategico, è una mutazione radicale della cultura costituzionale. E il suo costo non è solo economico: è anche morale, antropologico e simbolico.
Alla luce di quanto sopra, l’affermazione secondo cui l’aumento delle spese militari non comprometterebbe le «priorità» dello Stato è, oltre che infondata, pericolosa. Essa veicola una falsa coscienza del presente, elude la responsabilità democratica della scelta e occulta il dissenso possibile. La verità è che ogni euro destinato agli armamenti, in un sistema finanziariamente finito, è un euro sottratto all’educazione dei giovani, alla cura degli anziani, alla promozione della dignità del lavoro. Ed è su queste priorità, non sui missili e sui carri armati, che si misura il grado di civiltà di una Repubblica.
*SSML / Istituto di grado universitario San Domenico di Roma