Commento / Legittimare Hamas? Non è così che si aiuta il popolo palestinese

di Vincenzo Rizza 

Caro Aldo Maria,

troppo spesso, nei commenti che circolano oggi sul conflitto in Medio Oriente si cade in un errore tanto diffuso quanto pericoloso: applicare schemi occidentali a realtà che dell’Occidente non condividono né la struttura, né la visione dello Stato, né i presupposti culturali minimi.

Si parla tanto di riconoscimento dello Stato palestinese ma la Palestina, oggi, non è uno Stato anche perché non esiste, innanzitutto da parte palestinese, una cultura dello Stato nel senso comunemente inteso in Occidente. Il territorio di Gaza è governato di fatto da milizie armate che si contendono potere, fondi e propaganda. Hamas non rappresenta un popolo ma è un’organizzazione terroristica che governa di fatto quel popolo. Parlare di “Stato palestinese” e riconoscerlo senza condizioni, come alcuni Paesi occidentali sembrerebbero voler fare, significa legittimare anche politicamente quest’organizzazione e illudersi che la pace possa essere raggiunta riconoscendo un’entità terroristica che non solo quella pace l’ha sempre rifiutata, ma che opprime la popolazione palestinese e ha come obiettivo primario e perfino dichiarato la distruzione di Israele.

Per capire l’irragionevolezza della proposta è sufficiente un banale esempio: sarebbe come se, in un territorio dominato dalla criminalità organizzata, l’Onu proponesse di riconoscerlo come Stato indipendente per “dare voce al suo popolo”. Nobile proposito sulla carta, disastroso nella realtà tenuto conto che a trarne vantaggio non sarebbe il “popolo”, ma i suoi aguzzini.

E proprio gli aguzzini, in questo caso Hamas, hanno già mostrato cosa intendono fare del potere e del denaro. Gli immensi finanziamenti ricevuti nel corso degli anni – anche dall’Occidente – non sono stati investiti, se non in minima parte, in scuole, ospedali o infrastrutture civili, ma in tunnel sotterranei, arsenali, missili e basi di lancio, con le infrastrutture civili vigliaccamente utilizzate per coprire infrastrutture militari. Gaza in questi anni non è diventata una città libera: è diventata un deposito bellico nascosto sotto le case della gente, con la popolazione palestinese a fare, consapevolmente o meno, da scudo umano.

Certo, Israele non è immune da critiche. Ha le sue tante colpe e le sue frange fondamentaliste, che vanno condannate senza ambiguità. Questo, tuttavia, non giustifica il bilancino morale con cui oggi molti, soprattutto in Europa, tentano di equiparare i due fronti. Il fondamentalismo islamico non è meno pericoloso: per estensione e capacità di penetrazione culturale e militare, lo è molto di più. Fingere che si tratti di una semplice “resistenza popolare” è un atto di irresponsabilità storica prima che politica.

A ciò si aggiunge un veleno antico che torna a scorrere con sorprendente naturalezza: l’antisemitismo. Sta crescendo, e lo fa mascherandosi da “antisionismo”, da difesa dei diritti dei palestinesi, da critica alle politiche del governo israeliano. È sufficiente, tuttavia, grattare la superficie per ritrovare gli stessi meccanismi di ieri: la colpa collettiva attribuita all’intero popolo ebraico. Cambiano i simboli, cambiano le parole, ma il meccanismo è lo stesso: isolare l’ebreo, colpevolizzarlo. È il medesimo brodo di coltura che, non molti decenni fa, ha portato milioni di europei a convincersi che le leggi razziali fossero in fondo accettabili e che oggi spinge perfino molte università a bloccare o boicottare le convenzioni con le università israeliane. Allora come oggi, il salto dalla critica politica alla demonizzazione razziale è pericolosamente breve e se Israele sta vincendo la battaglia militare, Hamas sta senza dubbio vincendo quella della propaganda.

Quanto, poi, a chi sostiene che Hamas sia una creatura di Israele, vale la pena ribadire l’ovvio: ammesso e non concesso che vi siano stati in passato contatti basati sul noto principio “il nemico del mio nemico è mio amico”, questo non significa affatto che l’attuale guerra sia stata organizzata e voluta (con la barbarie, che molti dimenticano, del 7 ottobre 2023) da Israele; è solo un modo per assolvere Hamas da ogni responsabilità.

Quanto accade a Gaza è certamente tragico e la comunità internazionale deve fare ogni sforzo possibile per consentire l’arrivo di cibo e aiuti umanitari (che, tuttavia, non siano sotto il controllo di Hamas) per alleviare le sofferenze della popolazione. Nessuna coalizione internazionale, tuttavia, sembra disponibile o pronta a intervenire seriamente con forze di terra (“boots on the ground”, in gergo militare) essendo tutti consapevoli che la situazione è molto complessa e che le perdite umane delle forze di pace sarebbero inevitabilmente elevate: non certo, in questo caso, per responsabilità di Israele ma perché Hamas non vuole rinunciare al pieno controllo del territorio. L’alternativa, però, non può consistere nella richiesta di resa unilaterale di Israele, né nella sua demonizzazione permanente. Non dimentichiamo che ogni proposta di tregua è stata rifiutata da Hamas, che continua a usare la popolazione civile e gli ostaggi (di cui quasi nessuno parla) come carne da macello, trasformando ogni possibile spiraglio di pace in una trappola mediatica.

Volenti o nolenti, siamo davanti a uno scontro di civiltà, che purtroppo non si può disinnescare con flebili risoluzioni Onu, con proclami buonisti e neppure con frettolosi riconoscimenti dello Stato palestinese. La pace non si costruisce con i buoni sentimenti, ma con la verità dei fatti. E i fatti dicono che legittimare Hamas non significa sostenere il popolo palestinese: significa solo consegnarlo ai suoi carcerieri.

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