Opinione / Continuità con Francesco? No, Leone è cauto, ma la svolta c’è stata
di padre Santiago Martín
In una democrazia il potere è suddiviso in legislativo, esecutivo e giudiziario. Il parlamento approva le leggi, il governo le esegue e la magistratura vigila affinché sia la legislazione sia la sua applicazione siano corrette. Nella Chiesa cattolica, data la sua peculiarità, queste tre funzioni sono riunite nella persona del vicario di Cristo, il papa. È lui che approva le leggi, è lui che nomina un gruppo di collaboratori – i prefetti dei diversi dicasteri, che sarebbero l’equivalente dei ministeri nei governi – ed è lui che modifica il Codice di diritto canonico e nomina i giudici che devono vigilare affinché tale diritto non venga violato (la Segnatura Apostolica). Ciò non significa che il papa sia un monarca assoluto, che può fare ciò che vuole. Di certo non può legiferare (encicliche, costituzioni apostoliche, esortazioni apostoliche o persino rescritti) contro la Parola di Dio e la Tradizione (intesa come l’interpretazione data a quella Parola di Dio nei venti secoli di esistenza della Chiesa). Né può fare o ordinare che si faccia qualcosa contro quanto stabilito dalla legge (ad esempio, non può consentire il sacerdozio femminile senza che sia stato prima approvato, ma non può essere approvato perché andrebbe contro la Tradizione). E, naturalmente, anche se potesse cambiare il Diritto canonico (san Giovanni Paolo II approvò un nuovo Codice e Francesco lo ha modificato più volte), non solo non potrebbe farlo andando contro la Tradizione, ma non potrebbe nemmeno modificarlo (o non dovrebbe poterlo fare) quando è in corso un processo – come è successo nel caso del cardinale Becciu – perché sarebbe come cambiare le regole del gioco quando la partita è già iniziata.
È bene chiarire tutto questo perché alcuni credono che se il papa non approva una legge o non cambia una dottrina è perché non vuole, quando in realtà ciò che accade è che il papa non è altro che il primo servitore del messaggio evangelico, il garante supremo del deposito della Rivelazione.
Allora forse si può capire meglio il modo in cui papa Leone XIV sta governando la Chiesa in questi quasi quattro mesi in cui è alla sua guida. Apparentemente non ha fatto nulla, perché non ha emesso alcun documento, non ha modificato la sua squadra di collaboratori – salvo piccoli cambiamenti – e, naturalmente, non solo non ha modificato il Diritto canonico, ma non ha nemmeno fatto nulla contro di esso. Tutto ciò è interpretato da molti come un segno di assoluta continuità con il suo immediato predecessore (a parte alcuni dettagli di abbigliamento), il che porta alcuni all’euforia e altri allo scoraggiamento. Ma si tratta, dal mio punto di vista, solo di apparenza.
Ad esempio, nel discorso ai governanti del 21 giugno, Leone ha difeso con fermezza la legge naturale come limite alle pretese dei parlamenti di legiferare solo in funzione delle maggioranze. Citando esplicitamente Cicerone, ha detto: «Non è lecito modificare questa legge né sottrarle alcuna parte, né è possibile abolirla completamente; né per mezzo del senato né del popolo possiamo liberarcene, né è necessario cercare chi la commenti o la interpreti. E non ci sarà una legge a Roma, un’altra ad Atene, una ora e un’altra poi, ma una sola legge eterna e immutabile che governerà tutti i popoli in tutti i tempi». Questa difesa della legge naturale non è contenuta in un’enciclica, certamente, ma è già magistero, anche se di rango minore, e non c’è alcun dubbio che si ricolleghi direttamente agli insegnamenti di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Un altro testo significativo è il telegramma inviato il 28 maggio (solo venti giorni dopo la sua elezione) al Celam (il Consiglio episcopale latinoamericano, la principale istituzione ecclesiale che coordina tutti gli episcopati dell’America Latina e dei Caraibi), in cui dice, tra l’altro, che le iniziative pastorali da perseguire devono portare a «soluzioni secondo i criteri della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero» e aggiunge: «Abbiamo urgente bisogno di ricordare che è il Risorto, presente in mezzo a noi, che protegge e guida la Chiesa ravvivandola nella speranza». Nel telegramma non viene menzionata nemmeno una volta la parola magica che, secondo alcuni, esprime la continuità assoluta con il suo immediato predecessore, ovvero “sinodalità”. Al contrario, Leone usa un’altra parola che per i progressisti è tabù e dovrebbe essere bandita: “Tradizione”.
Un altro esempio. Si è conclusa la riunione dei vescovi dell’Amazzonia, che ha riunito più di novanta cardinali e prelati. Il cardinale Barreto, suo presidente, prima dell’inizio della riunione ha affermato che questa era «la continuazione del processo sinodale che viviamo nella Chiesa». E sulla pagina ufficiale della Conferenza episcopale dell’Amazzonia (Ceama), dove è stato annunciato l’incontro, si diceva esplicitamente che questa riunione aveva come missione «il consolidamento della sinodalità nelle Chiese dell’Amazzonia» e si indicavano quattro obiettivi: «Riprendere il ruolo dei vescovi come pastori delle Chiese locali come primi responsabili della sinodalità, identificare i progressi compiuti nel nostro cammino sinodale, condividere esperienze che ci aiutino a valorizzare i cammini di sinodalità e infine offrire proposte concrete per articolarsi come Conferenza episcopale». Non una sola parola sull’evangelizzazione e nemmeno le parole “Cristo”, ‘Gesù’ e persino “Dio” venivano menzionate. E che cosa ha fatto Leone XIV? Ha inviato un telegramma, firmato a suo nome dal cardinale Parolin, segretario di Stato, in cui afferma con tutta chiarezza che «è necessario che Gesù Cristo, in cui tutte le cose sono ricapitolate, sia annunciato con chiarezza e immensa carità tra gli abitanti dell’Amazzonia», e aggiunge che è necessario dare a quei fedeli «il pane fresco e puro della Buona Novella e il cibo celeste dell’Eucaristia, unico mezzo per essere veramente Popolo di Dio e Corpo di Cristo». Ma non finisce qui, perché prosegue dicendo che «là dove si predica il nome di Cristo, l’ingiustizia arretra proporzionalmente, poiché, come afferma l’apostolo Paolo, ogni sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo scompare se siamo capaci di accoglierci gli uni gli altri come fratelli». E forse ciò che più ha ferito alcuni, ma ha rallegrato molti altri, è questa frase: «Dio Padre ci ha affidato la casa comune come amministratori solleciti, affinché nessuno distrugga irresponsabilmente i beni naturali che parlano della bontà e della bellezza del Creatore né, tanto meno, si sottometta a essi come schiavo o adoratore della natura, poiché le cose ci sono state date per raggiungere il nostro fine di lodare Dio e ottenere così la salvezza delle nostre anime». Come si vede, nel telegramma non è menzionata nemmeno una volta la parola «sinodalità». Dunque, si può davvero dire che ci sia assoluta continuità tra un papa che rifiuta di diventare schiavo o adoratore della natura e la solenne intronizzazione dell’idolo della pachamama nella basilica di San Pietro e la scena scandalosa di diversi sacerdoti e religiosi inginocchiati davanti a lei, nei giardini vaticani, alla presenza di papa Francesco? A chi parla di continuità si può applicare il detto che non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere.
Papa Leone non ha ancora pubblicato un’enciclica, né un documento ufficiale di rilievo. Non ha ancora scelto la sua squadra di governo e continua a lavorare con quella precedente. Non ha toccato il Codice di diritto canonico. Sotto questo profilo, apparentemente tutto è continuità, il che rende felici molti e rattrista altri. Ma nella sostanza è davvero così? Il fatto che il suo stile sia discreto e tranquillo non significa che non stia già esercitando il suo ruolo di legislatore ponendo chiaramente le basi del suo programma di governo: Cristo, prima di tutto, e fedeltà alla Parola di Dio e alla Tradizione, con l’obiettivo principale di evangelizzare. Chi non vede la portata del cambiamento, dovrebbe farsi controllare la vista.
Preghiamo per il papa e rendiamo grazie a Dio per avere un vicario di Cristo che dice che la natura deve portarci a lodare Dio e a salvare le nostre anime e che non dobbiamo in alcun modo adorarla. Esattamente ciò che disse Francesco. Mi riferisco, naturalmente, a san Francesco d’Assisi nel suo «Cantico delle creature».
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