A proposito di obbedienza. Note sulle osservazioni di monsignor Viganò
di Daniele Trabucco
Accolgo con viva e sincera gratitudine le osservazioni che sono state rivolte ai miei interventi in materia di obbedienza all’autorità ecclesiastica, in particolare la grande lezione di sua eccellenza reverendissima l’arcivescovo Carlo Maria Viganó, per il quale nutro non solo profonda stima e ammirazione, ma anche un autentico apprezzamento per la sua incrollabile coerenza cattolica che lo rende un testimone coraggioso della verità in tempi così bui. Esse manifestano amore alla Chiesa e alla fede cattolica e, per questo, meritano di essere accolte come stimolo a un ulteriore chiarimento.
La riflessione sull’obbedienza non può ridursi a una prospettiva puramente pratica, ma deve radicarsi nel piano teoretico e teologico, cioè nella relazione tra l’ordine voluto da Dio, la grazia che lo sostiene e la natura stessa della Chiesa come corpo mistico di Cristo. Si è giustamente osservato che esiste una distinzione tra ordini che toccano la sfera disciplinare e ordini che toccano la sfera della fede. È vero: da un punto di vista contenutistico la disciplina e la fede appartengono a due ambiti diversi. La disciplina riguarda le modalità esteriori di governo, l’amministrazione dei sacramenti, la regolamentazione della vita ecclesiale; la fede riguarda, invece, il deposito rivelato e la custodia della verità divina senza alterazioni. Tuttavia, sebbene diversi, questi due ambiti non sono estranei tra loro, ma si completano e si sostengono vicendevolmente. La disciplina, infatti, non è mai fine a sé stessa, né può essere pensata come un puro strumento di ordine esteriore. Essa, infatti, è ordinata a custodire e a favorire la fede: regola le condizioni concrete affinché il deposito rivelato sia accolto, custodito e trasmesso senza adulterazioni. Una disciplina contraria alla fede non è autentica disciplina ecclesiale, perché tradirebbe la finalità stessa per cui è stata istituita. Dall’altro lato, la fede, se vuole realmente incarnarsi nella vita storica della Chiesa, non può non assumere forma disciplinare: il contenuto rivelato, per potersi esprimere e custodire nel tempo, richiede un ordine visibile, una norma, una regolamentazione. È in questo senso che i due piani, pur distinti, si completano.
San Tommaso d’Aquino (1225-1274) aiuta a comprendere questo rapporto quando afferma che l’obbedienza ai superiori umani è sempre relativa e subordinata alla legge di Dio (II-II, q. 104). La norma disciplinare trae autorità in quanto rimanda a un bene superiore e questo bene è sempre, direttamente o indirettamente, la verità della fede. Non esiste, quindi, una neutralità disciplinare: ogni comando, ogni provvedimento ecclesiale ha valore nella misura in cui è in ordine alla verità che la Chiesa custodisce. Perciò anche quando l’obbedienza si esercita in materia disciplinare, essa non è mai separata dalla fede, trovando in essa la propria ratio ultima. Questo chiarisce anche la differenza dei casi concreti. Un santo che obbedisce a un provvedimento disciplinare ingiusto ma non contrario alla fede (come nel caso di Padre Pio) compie un atto di eroica abnegazione, perché riconosce che anche nella durezza e nell’iniquità il comando non rompe il legame con il deposito rivelato. Diversa è, invece, la situazione in cui un’autorità ecclesiastica comanda ciò che contraddice la fede: in quel caso l’ordine non è più autenticamente disciplinare, ma si trasforma in una deviazione che colpisce la stessa ratio dell’autorità. Qui il rifiuto non è ribellione, ma fedeltà. Tuttavia, ed è un punto che ritengo imprescindibile, tale rifiuto non può mai tradursi in atti di natura scismatica, né in atteggiamenti che producano pubblico scandalo. Perché se è vero che disciplina e fede si completano, è altrettanto vero che la disciplina, in quanto ordine visibile, serve anche a custodire l’unità della Chiesa. E l’unità è parte del bene comune soprannaturale del Corpo mistico.
Non si può, dunque, difendere la verità della fede al prezzo di lacerare la comunione ecclesiale. È questo che distingue la “resistenza” virtuosa dalla ribellione: la prima custodisce l’unità nella verità, la seconda la spezza.
In questo senso, obbedienza e “resistenza” non sono termini opposti. La resistenza vera è ancora obbedienza, perché è rivolta a Dio quando gli uomini deviano. E l’obbedienza autentica, anche quando si esprime nel dolore del rifiuto, non rompe mai la comunione, ma la ristabilisce, purificando la disciplina dalla deviazione e riconducendola alla sua finalità originaria. La disciplina e la fede, allora, pur diverse nell’oggetto, sono unite nel fine: la gloria di Dio e la salvezza delle anime. L’una senza l’altra si ridurrebbe a un simulacro: la fede senza disciplina diventerebbe astratta, la disciplina senza fede degenererebbe in burocrazia o in abuso. È per questo che l’obbedienza resta sostanza della santità: perché è il vincolo vivente che unisce disciplina e fede nella carità di Cristo, in cui il comando e la verità non sono mai scissi, ma ordinati all’unico bene.



