Lettera / Riduzione allo stato laicale: per curare o per fulminare?
Caro Valli,
seguo da anni il suo blog e lo apprezzo molto.
Mi rivolgo a lei, ai lettori e ai suoi pregiatissimi collaboratori per sottoporre una mia considerazione, personalissima e magari peregrina.
Ho appreso della recente riduzione allo stato laicale di un sacerdote diocesano, l’ennesima.
La trafila è sempre la stessa: sospensione, scomunica e riduzione allo stato laicale. Le prime due appartengono alla categoria delle pene medicinali e la terza a quella delle pene espiatorie.
Chi apertamente e convintamente dichiara di non riconoscere la comunione con la Chiesa, che si rende visibile attraverso la sua gerarchia, si mette fuori da solo, si “scomunica”: questo è chiaro.
Ma l’autorità che gli commina la pena della scomunica dovrebbe farlo con estremo dolore e con l’intento di restaurare quanto prima la comunione. Per questo si chiamano “pene medicinali”: servono come terapia, per ritrovare la salute. C’è un malato, un medico e una medicina: il medico ama il malato e si adopera in ogni modo per la sua guarigione.
In questo senso, ad esempio, va la scomunica prescritta da san Benedetto nella sua Regola, perché il monaco si emendi e, risanato, possa essere riammesso alla pratica della vita comunitaria.
Stando a quanto dichiarato nell’ultimo canone del Codice di diritto canonico, la legge suprema della Chiesa è la salus animarum, la salvezza delle anime. A questo s’orienta, o dovrebbe orientarsi, ogni intervento dell’autorità, nei confronti di ogni battezzato, sacerdote o laico che sia.
Infatti “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
Ebbene, la mia impressione, di laico qualunque, è che attualmente ci sia un ricorso eccessivo alla pena della riduzione allo stato laicale: quasi che si voglia allontanare definitivamente la possibilità di un ravvedimento. Visto dall’esterno, il ricorso a questa pena comunica una volontà di fulminare implacabilmente e definitivamente il reo. Cui prodest? Alle volte parrebbe a beneficio dell’opinione pubblica e/o per tacitare ogni dissenso. Motivazioni, queste, che dovrebbero essere assolutamente aliene alla prassi di Santa Madre Chiesa.
Forse interpreto male. Ci saranno criteri canonici da seguire per comminare pene corrispondenti ai reati. Almeno me lo auguro. Certo l’impressione di un uso strumentale e poco “soprannaturale” delle pene canoniche, specie le più severe, resta. Che siano esse diventate instrumentum regni e non più mezzo di paterna e cristiana correzione?
Lettera firmata
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