Allenatrice di pallavolo licenziata per aver protestato contro la presenza di un atleta transgender nella squadra femminile
Un atleta transgender gioca in una squadra di pallavolo femminile dimostrandosi dominante per altezza (1 metro e 85) e forza fisica. Una vice allenatrice fa presente che la cosa non è regolare né leale e presenta ricorso, ma viene sospesa e infine licenziata.
Succede negli Stati Uniti, dove l’ex vice allenatrice della San José State University, Melissa Batie-Smoose, ha deciso di intentare una causa per licenziamento ingiusto.
La vicenda riguarda la squadra di pallavolo femminile della San José, dove gioca Braden “Blaire” Fleming, uno schiacciatore transgender la cui presenza in squadra ha fatto ottenere all’università numerose vittorie, ma spesso a tavolino perché le altre squadre si sono rifiutate di misurarsi contro una formazione in cui gioca un atleta che sotto ogni aspetto è un maschio.
Nel suo reclamo Batie-Smoose ha spiegato che le capacità atletiche di Fleming, specie per quanto riguarda il salto e la schiacciata, “superano quelle di qualsiasi altra giocatrice” del campionato, che gli altri giocatori non erano a conoscenza del vero sesso di Fleming e che la scuola gli ha riservato un trattamento preferenziale, fino al punto di intimorire coloro che volevano sollevare il problema.
Dopo aver presentato le sue obiezioni, nel novembre dello scorso anno, Batie-Smoose è stata sospesa a tempo indeterminato e pochi giorni fa il suo contratto non è stato rinnovato. In pratica un licenziamento, da cui Batie-Smoose ha preso spunto per denunciare la scuola con l’accusa di discriminazione delle opinioni.
La causa, dopo aver rilevato la questione della presenza di un maschio biologico in una squadra femminile, afferma che l’ex vice allenatrice ha “subito e continua a subire perdite salariali, perdita di reputazione e opportunità professionali, senza contare lo stress emotivo e altri danni”.
Nel febbraio scorso il Dipartimento dell’istruzione dell’Amministrazione Trump ha avviato un’indagine sulla scuola e su altri istituti.
Spesso la presenza di atleti transgender viene favorita con il pretesto della “inclusività”, ma è chiaro che tale pratica mina la credibilità stessa degli sport suddivisi per sesso.
Negli ultimi anni si sono verificati numerosi esempi di uomini che hanno vinto gare femminili, ma la ricerca afferma che la fisiologia conferisce agli uomini evidenti vantaggi atletici che non possono essere completamente annullati dalla soppressione ormonale.
Ad esempio, in un articolo del 2019 pubblicato dal “Journal of Medical Ethics”, ricercatori neozelandesi hanno dimostrato che i giovani uomini sani non perdono massa muscolare significativa né potenza quando i loro livelli di testosterone vengono ridotti. Fattori come la struttura ossea, il volume polmonare e le dimensioni del cuore non sono alterati dalla terapia ormonale, pertanto il vantaggio per uomini biologici che si misurano in competizioni femminili è un’ingiustizia intollerabile.
Anche le Nazioni Unite, pur essendo in generale favorevoli ai transgender, lo hanno riconosciuto. In un rapporto dell’ottobre 2024 della relatrice speciale Reem Alsalem si segnala che a partire dal marzo 2024 oltre seicento atlete in tutto il mondo hanno perso più di 890 medaglie a favore degli uomini in ventinove diversi sport. Ovvia la conclusione: “Per una questione di pari opportunità, gli uomini non devono competere nelle categorie sportive femminili”.
È stato calcolato che, a partire dagli anni Ottanta, solo negli Stati Uniti più di 1.941 medaglie d’oro in eventi sportivi femminili sono state vinte ingiustamente da uomini che si identificano come “donne trans”. In più di diecimila eventi sportivi femminili, amatoriali e professionistici, almeno 493.173 dollari in premi in denaro sono andati ingiustamente ad atleti transgender (dati raccolti da He Cheated e analizzati da Concerned Women for America).



