Oltre i “diritti”. Un nuovo lessico per una nuova visione
di Daniele Trabucco
L’idea che le Costituzioni e le Carte garantiscano l’uomo in quanto tali nasce da un gesto tipicamente moderno: affidare alla volontà legislativa e alla scrittura il compito di fondare la giustizia. Un testo, però, non preserva la persona se non partecipa a un ordine del giusto anteriore e superiore alla volontà che lo ha prodotto. Senza quel referente realistico, i testi costituzionali diventano protocolli di decisione e arsenale di bilanciamenti, non presidio della dignità.
Il lessico corrente dei “diritti” rende visibile la radice del problema: è un lessico costruito attorno al soggetto desiderante, non attorno alla cosa giusta. Per questo il linguaggio si dilata, le pretese proliferano, i contenuti si assottigliano, l’interpretazione oscilla.
Nella tradizione classica “ius” non significa “potere del soggetto”, bensì “ciò che è giusto”: la “res iusta“, la misura del dovuto nelle relazioni. Il “diritto” come facoltà soggettiva (in lingua latina “facultas agendi) è una categoria tarda, figlia di una genealogia che sposta il baricentro dalla giustizia ai poteri, dalla natura dei beni alla volontà di chi rivendica. Se l’ordinamento assume come unità fondamentale la facoltà, la garanzia si risolve nella regolazione procedurale delle pretese; se assume come unità fondamentale il giusto, la garanzia consiste nel riconoscere beni indisponibili e nel rendere a ciascuno il suo.
Per questo, da un punto di vista rigorosamente giusnaturalistico, il lemma “diritti” andrebbe sostituito con “iura” intesi come “titoli di giustizia”: non spazi illimitati di autodeterminazione, bensì posizioni relazionali fondate sui beni che perfezionano la persona.
La differenza non è meramente terminologica, è ontologica e metodologica. Dire “diritto alla vita” evoca una facoltà individuale; dire “titolo di giustizia alla tutela della vita innocente” richiama un bene indisponibile che obbliga tutti. Dire “diritto all’educazione” centra la scena sul titolare; dire “titolo-dovere all’educazione conforme al bene integrale del minore” ricompone la trama di relazioni naturali tra genitori, figli, comunità politica e istituzioni scolastiche. Dire “diritto di proprietà” accentua il possesso; dire “titolo di giustizia al possesso e all’uso responsabile delle cose” ordina la disponibilità al fine personale e sociale. Il passaggio da “diritti” a “iura” sostituisce la logica della pretesa con la logica del dovuto, rilegge la libertà come potenza di agire secondo ragione, ricolloca l’eguaglianza nella comunanza del fine umano e non nell’indifferenza alle differenze sostanziali. Il costituzionalismo moderno, costruito su un catalogo di “diritti” bilanciabili, eredita la scissione tra diritto e giustizia e tra persona e natura: il diritto diventa tecnica di produzione e controllo, la persona centro di preferenze.
Da qui l’esito noto: le Costituzioni registrano una geologia di volontà, costituente, legislativa, giurisdizionale, amministrativa, e ne amministrano i conflitti con principi plastici. In tale cornice, la garanzia migra dal testo alla prassi ermeneutica: il giudice istituisce la portata delle formule, la proporzionalità diventa arte di pesi contingenti, la “dignità” un segno polisemico disponibile a torsioni opposte.
Non è la buona fede degli interpreti a difettare, è il criterio oggettivo del giusto a non vincolare. Dove mancano beni indisponibili, il bilanciamento consuma la sostanza, la certezza si assottiglia, l’eguaglianza si logora, la libertà scivola nell’opzione.
Il ritorno, allora, al diritto naturale classico non è nostalgia, né teologizzazione del foro civile. È ricomposizione realistica dell’atto giuridico. La persona è supposto razionale e relazionale, portatrice di inclinazioni essenziali ai beni che ne perfezionano l’essere: vita, verità, comunione, procreazione ed educazione, sociabilità politica, lavoro e proprietà ordinata.
La “lex naturalis“, partecipazione della “lex aeterna” nell’intelletto pratico (Tommaso d’Aquino), fornisce principi primi e criteri prossimi e la “prudentia iuridica” determina misure adeguate al caso. In questo orizzonte, gli “iura” sono “titoli di giustizia” che scaturiscono dai beni stessi e che obbligano correlativamente tutti gli attori istituzionali.
La legge positiva, in questa prospettiva, è giusta nella misura in cui tutela e ordina quei beni, è iniqua se li rovescia o li strumentalizza. Da ciò discendono conseguenze istituzionali precise.
Primo: riforma del lessico normativo e giurisprudenziale, sostituendo sistematicamente “diritti” con “iura” intesi quali “titoli di giustizia”. Secondo: concepire il potere costituente prima e costituito poi (utilizzo categorie positivistiche per rendere meglio l’idea) come poteri ordinatori. Terzo: una giurisdizione ricondotta al compito dichiarativo del giusto e non alla sua produzione.
Quarto: sussidiarietà effettiva come tecnica di protezione della persona e delle comunità intermedie, evitando che l’amministrazione si sostituisca alla teleologia dei fini.
Si chiarisce così la grammatica rinnovata della garanzia. Gli “iura” sono relazioni giuste ordinate al bene, non immunità assolute: la “dignità” non equivale a illimitata autodeterminazione, è statuto ontologico che esige riconoscimento, protezione e promozione ordinata; l’eguaglianza significa pari titolarità del fine umano e dei beni fondamentali con giustizia distributiva attenta alle condizioni e non omologazione; la libertà è capacità razionale di bene e non autodeterminazione assoluta. L’obiezione di indeterminatezza del diritto naturale decade se si distingue tra principi universali e determinazioni prudenti: i primi vincolano, le seconde modulano senza recidere il fondamento e lo “ius gentium” che emerge per convergenza tra civiltà diverse testimonia la riconoscibilità diffusa del giusto.
In conclusione, finché il costituzionalismo resta ancorato al concetto moderno di “diritto”, la garanzia rimane fragile perché dipende da procedure e umori interpretativi quali enzimi del vitalismo sociale. La sostituzione del lemma con “iura” quali “titoli di giustizia” non è un esercizio di stile: è, invece, il modo di riportare il diritto alla sua ragione d’essere, ricongiungendolo alla verità dei beni e alla misura del dovuto. Solo dentro questo lessico realistico le Costituzioni cessano di essere superfici riscrivibili e diventano baluardi: non madri di pretese, bensì custodi del giusto; non laboratori di bisogni, bensì architetture al servizio della dignità, che è prima del diritto positivo e che soltanto il ritorno al “ius” in senso classico può realmente tutelare.



