Addio oratorio ambrosiano?

Come quasi tutti i bambini nati a Milano e dintorni alla fine degli anni Cinquanta, il sottoscritto è un figlio dell’oratorio ambrosiano. Anni e anni di frequentazione, soprattutto durante le elementari e le medie. Giorni e giorni trascorsi con i miei coetanei maschi in quei cortili e in quel campetto di calcio in terra battuta, il nostro Maracanà.

Intitolato a San Carlo, il mio oratorio era scuola di vita e di fede. Il nostro prete, don Filippo, giocava bene a pallone (specie perché nei dribbling nascondeva la palla sotto la lunga tonaca nera) e ci tirava su a messe e confessioni. Siccome noi eravamo tutti interisti, milanisti o juventini, lui, orgogliosamente tifoso del Toro, ci prendeva in giro giudicandoci dei parvenu. Giocava, rideva e scherzava con noi. Quando ci faceva una proposta diceva: “Siete liberi di rispondere. Avete due possibilità: sì o sì”. Sulla dottrina, anche mariana, era implacabile. E per accedere al campetto occorreva rispettare una condizione: aver frequentato il catechismo.

In inverno don Filippo ci portava a sciare. Il pullman partiva all’alba, con l’oratorio ancora avvolto nelle tenebre. Poi, dopo una lunga giornata sulla neve, tutti in chiesa per la santa messa. Eravamo stanchissimi, con le facce cotte dal sole e dal vento, ma nessuno poteva svignarsela.

Arrivati in quarta elementare, finalmente fu possibile iscriverci al mitico torneo di calcio a sette. Ogni classe poteva iscrivere una squadra. Si giocava il giovedì pomeriggio. Noi vincemmo due edizioni e regalammo la coppa alla nostra signora maestra. Io giocavo terzino sinistro, come il mio idolo Facchetti.

Sapevamo che esisteva anche un oratorio femminile, ma era un universo lontanissimo da nostro. Delle bambine e delle ragazze si occupava un altro prete, ma era un mondo separato. Come a scuola (loro grembiule bianco e fiocco rosa, noi grembiule nero e fiocco azzurro) e come in chiesa (noi sul lato destro della navata, loro sul sinistro)

Andavano al catechismo indossando già le scarpe per la partita di pallone, le stesse scarpe di tela che usavamo anche per andare in palestra, e pazienza se sul terreno sassoso si bucavano: nessuno poteva nemmeno immaginare di possedere vere scarpe da calcio. La signora catechista ci vedeva scalpitare e alla fine della lezione, impietosita, ci lasciava scappare via di corsa verso il campetto, dopo un segno della croce alquanto frettoloso.

L’arbitro era un ragazzo poco più grande di noi, uno dei tanti giovani che aiutavano il prete. A parte don Filippo e la signora catechista, non c’erano altri adulti.

Mi sono lasciato andare a questi ricordi per dire che sono rimasto perplesso quando ho letto che l’arcidiocesi di Milano ha pubblicato un documento in cui l’oratorio è definito “laboratorio privilegiato di incontro interreligioso” e, tanto per cambiare, “di dialogo”, con il fine di “integrare sempre di più l’aspetto interreligioso”.

Ora, io so bene che il mondo è tutto cambiato e che, rispetto a quand’ero bambino, è come se parlassimo di un altro pianeta. Però mi spiace apprendere che nel progetto educativo devono diventare centrali le iniziative “interreligiose” ed è “utile creare legami con le comunità islamiche del territorio e con le altre comunità religiose, cercando occasioni di incontro”.

Nella mia ignoranza, penso che ci siano altre occasioni per fare esperienze “interreligiose”. D’accordo, la società è ormai multiculturale, ma l’oratorio cattolico, in quanto tale, non dovrebbe servire a incontrare Gesù?

Leggo: “Occorre evitare pregiudiziali atteggiamenti di chiusura come, per esempio, impedire ai ragazzi musulmani che siano animatori o che siano ammessi solo a condizione che preghino o siano presenti a tutte le proposte appartenenti specificatamente alla tradizione cristiana”. E sentite qua: “Non si esclude, poi, in alcuni contesti particolari in cui la vicinanza con una comunità musulmana o di altra confessione sia favorevole e lo scambio umano e interreligioso sia già stato sperimentato in modo reciprocamente rispettoso, la possibilità di pensare a dei momenti in cui bambini di altra religione abbiano un momento di preghiera più pensato per loro, guidato da responsabili della comunità religiose di appartenenza, o da alcune mamme o papà incaricati dalle comunità religiose e che si rendono disponibili a tale scopo”.

A parte la prosa faticosa, mi chiedo perché l’oratorio cattolico debba riservare “momenti di preghiera” per chi cattolico non è.

Ripeto: sono ignorante. E sicuramente i responsabili degli oratori ambrosiani sanno quel che fanno e quel che scrivono, eppure ho l’impressione che qui ci sia un equivoco di fondo. L’oratorio non è un semplice centro culturale. È luogo di formazione cattolica.

Fra l’altro, so che i musulmani – se proprio vogliamo parlare di loro – rispettano noi cristiani quando ci comportiamo da cristiani, non quando ci spogliamo della nostra fede e dei nostri riti.

Che cosa penserebbe di questo documento il cardinale Andrea Carlo Ferrari, al cui episcopato risale la nascita dell’oratorio ambrosiano (primi anni del Novecento) come luogo di formazione umana e cristiana?

Non sto a riassumere tutto ciò che l’oratorio, pensato sul modello voluto da don Bosco, ha significato per la Chiesa ambrosiana e, più in generale, per la società. Tutti noi che oggi abbiamo circa settant’anni lo sappiamo bene. Non voglio neanche cadere nel solito “ai miei tempi”. Ho comunque l’impressione che questo nuovo documento assomigli molto a un colpo definitivo inferto a un organismo già sofferente per tanti motivi.

 

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