Una settimana con papà

Andare piano, parlare forte. Andare sempre più piano, parlare sempre più forte. Il mio papà ha novantaquattro anni, e con lui devo fare il contrario di quanto sono abituato a fare. Io sono insofferente, odio le attese. Con lui si procede a passettini, con frequenti soste. A me non piace alzare la voce. Con lui devo quasi gridare. A me piace prendere l’iniziativa, senza troppe spiegazioni. Con lui devo prima avvisare, poi spiegare, poi chiedere se è d’accordo. E poi riavvisare e rispiegare e richiedere.

Vivere al contrario, per una settimana. Una settimana bianca, a suo modo. Bianchi i miei capelli, bianchi i suoi. Lui un grande vecchio, io all’inizio della vecchiaia. Un tempo un’accoppiata del genere era rara, oggi è normalità. Insieme facciamo la bellezza di centocinquantatré anni. Si chiama benessere. Pare.

Anziché sulla neve, in questa settimana bianca scivoliamo sulle bucce di banana delle cose di tutti i giorni. Difficile sintonizzarsi. Complicato fare lo slalom tra le abitudini. Possibile che siamo così diversi? Ma lo siamo diventati o lo siamo sempre stati? Ma lo siamo poi davvero?

Ho voluto fare il grande gesto: non ho portato il computer. Niente scrittura. Unica lettura, un libro. Per prendere sonno. Niente posta elettronica, niente web, niente social. Così scopro di esserne tremendamente dipendente, molto più di quanto potessi immaginare. Immergermi nella realtà fisica e tenere a distanza quell’altra, quella virtuale, è una fatica micidiale. Nella realtà virtuale comando io, qui no. Non so declinare la voce del verbo adeguarsi.

Il papà ha le sue preoccupazioni. Non sono le mie. Mi sforzo di calarmi nella parte del figlio devoto, ma il pensiero va da un’altra parte. Mi sforzo di nuovo, e il pensiero riscappa. Devo ammetterlo: non sono tanto capace di ascoltare. Non sono più capace o non lo sono mai stato?

Le giornate scivolano via, un passettino dietro l’altro. La vecchia pendola, tanto cara alla mamma, fa tic tac. Ogni ora l’annuncio che un’ora è passata. Alla mezza dovrebbe esserci un solo rintocco, invece sono due. Nessuno è mai riuscito a ripararla. La mamma ci soffriva.

Il papà ha tante domande per il figlio che di solito è lontano. Il figlio scopre di avere solo mozziconi di risposte. Il papà ci resta male. Il figlio forse di più. Gli anni trascorsi lontano superano ormai quelli vissuti fianco a fianco. Il primo e il secondo mondo si guardano con sorpresa e un certo sospetto. Non si capisce bene se faticano a trovare punti di contatto o se ne hanno paura.

Nella casa del papà si può fare una caccia al tesoro. Ogni oggetto ha una storia. Ogni storia è riassunta in un oggetto.

Trovo un vecchio libro con la copertina marrone. È intitolato, semplicemente, «Milano». Sotto è stampata una data, in numeri romani: MCMXXXVIII. Ovvero 1938. Poi c’è l’indicazione obbligatoria in quei tempi: XVI. Ovvero anno sedicesimo dell’era fascista. Il papà all’epoca aveva quindici anni. Io sarei arrivato vent’anni dopo, in pieno boom economico. Il libro racconta le magnifiche sorti della città lanciata verso l’industrializzazione. La fiducia di regime è irritante e nello stesso tempo suscita tenerezza. Possibile che sia storia? La nostra storia?

In un altro libro, lì accanto, trovo un biglietto scritto da me. Ha più di mezzo secolo, ma si legge ancora. «Alla mamma più bella e più brava del mondo». Il bambino di tanti anni fa disegnò un fiore giallo, uno rosso e uno azzurro, e poi un cuore scarlatto. I colori pastello sono tenui, ma hanno resistito abbastanza bene. Perché il bambino scrivesse dritto, qualcuno tracciò una linea con la matita. Oggi sarebbe pedagogicamente scorrettissimo.

Nella casa del papà ci sono tante fotografie. I figli, i nipoti, ora anche i pronipoti. Il mio papà è bisnonno, io sono nonno. Però per il piccolo Giacomo, di quasi due anni, siamo tutti nonni e basta. Lui non fa i conti e lo trova naturale. Entra in casa e si mette a correre.

Tic tac fa la pendola. Tempus fugit. Anch’io sono scappato. È il compito dei figli. Un sottile senso di colpa si accompagna alla soddisfazione.

Trovo la vecchia bilancia da cucina che la mamma usava per pesare la farina, quando faceva le torte. Chiedo al papà se me la regala. Mi sento in imbarazzo: non vorrei dargli l’impressione di voler saccheggiare il suo mondo. Però la bilancia mi piace. Rivedo la mamma che traffica con gli ingredienti: sbuccia le mele, aggiunge latte e zucchero. Sento il profumo del limone. La torta svizzera, così la chiamava.  La torta d’obbligo per i miei compleanni. Il papà è d’accordo: certo che posso prendere la bilancia. Lui mi darebbe tutto. Un’altra fitta di senso di colpa.

Fuori, il cielo è una poltiglia biancastra. Sempre uguale, come un coperchio sulla testa. Guarda un po’: era il mio cielo, adesso non lo riconosco.

Porto il papà a pranzo nella pizzeria sotto casa. Un passetto alla volta, sotto un pioggia fine e invadente. Reggo l’ombrello a protezione di entrambi. Un nonno che accompagna un bisnonno: che spettacolo.

La pizzeria è gestita da giovani egiziani. Cristiani copti. Quando lasciai quest’angolo di Padania un tale melting pot sarebbe stato inimmaginabile. Sulla strada che fu la mia strada, intitolata a un papa lombardo, c’è un locale che vende kebab. Più in là una macelleria halal.

«Questi ragazzi sono tanto bravi», dice il nonno-bisnonno riferendosi ai pizzaioli egiziani. Si vede che gli si è affezionato. Al ritorno, altri passettini. Con una mano reggo l’ombrello, con l’altra guido il papà perché eviti le pozzanghere. «Guarda che razza di marciapiedi», borbotta tra sé. Il tecnico che è rimasto in lui giudica indecente che ci sia qualche avvallamento. Meno male che non può più venire a trovarmi a Roma, la città delle buche.

Sul muro bianco di una ex fabbrica qualcuno ha vergato una bestemmia. Mi tocca recitare parecchie preghiere in riparazione. Pare che lì costruissero elettrodomestici. Adesso è un ritrovo di fantasmi. Un cartello dice che è in corso la bonifica e lo smaltimento dell’amianto, ma non si vede anima viva. Tutti contaminati? Mi viene in mente che nel libro sulla Milano del 1938 ho visto la pubblicità dell’eternit, il cemento-amianto, decantato come il materiale da costruzione del futuro.

A casa, con un certo raccapriccio, scopro che il papà segue una telenovela di produzione non ho capito bene se messicana o spagnola. L’appuntamento è fisso. Ci sono io, il figlio amatissimo, potremmo chiacchierare, ma perdere una puntata significa non capire più niente. E poi, ammettiamolo, non è che noi due siamo mai stati questi gran conversatori. La televisione invece non si fa problemi. Il suo vociare si mescola al tic tac della pendola, e il tutto a quanto sembra ha un effetto rassicurante.

Il papà vuole uscire a far spese. Al supermercato, ecco tanti anziani. Come noi. Dove sono i giovani? Sembra di essere in un mondo post-bellico: unici sopravvissuti, quelli dai cinquant’anni in su. Il papà spinge il carrello e mi invita a prendere le cose che mi piacciono. Scatta il meccanismo padre-figlio: adesso io sono il bambino. Mi accorgo che il papà è diventato un po’ consumista. Mi tocca frenarlo. Adesso io sembro il suo papà.

Il mescolamento di ruoli mi fa girare la testa. Mi stanco più che se avessi scritto un lungo articolo.

Eccoci di nuovo a casa. Ti tac fa la pendola. Gru gru fa il piccione sul tetto della casa di fronte. Trovo una scatola di legno con le lettere del mio papà alla mia mamma, quando erano giovanissimi. Tempo di guerra: il futuro bisnonno scriveva alla sua amata da una casermetta. Leggo solo l’intestazione. Non mi avventuro tra quei fogli. Non so bene perché, ma mi sembrerebbe un gesto sacrilego.

Il momento più brutto è quando perdo la pazienza. È bastato pochissimo ed ecco la deflagrazione. Non me lo perdono. E meno mi perdono più perdo la pazienza. Se avessi frenato la lingua, i due mondi non sarebbero entrati in collisione. Invece eccomi qui a raccogliere i cocci. E non c’è neanche una constatazione amichevole da firmare. Solo la pendola. E il piccione.

In un cassetto c’è una fototessera del mio papà quando aveva l’età che ho io adesso: lo sapevo che non dovevo aprirlo.

Giacomo viene a trovarci e corre sul pavimento di legno. Vuole che il nonno lo segua. Capisco che in questo caso l’interpellato sono io. Mi metto a correre e mi viene il fiatone. Giriamo attorno alla poltrona del nonno-bisnonno, che è diventata una boa. Le esclamazioni di Giacomo hanno la meglio su telenovela e pendola.

Dopo una settimana saluto il mio papà con un bacio. Glielo stampo sulla fronte. Lui si commuove e borbotta qualcosa che non capisco. In tutti questi giorni, come al solito, le parole sbagliate, e quelle non dette, hanno avuto ampiamente la meglio sulle parole giuste, su quelle che avremmo potuto e voluto dire veramente. Ma poi le parole giuste esistono?  Perché siamo così complicati?

Dal cielo poltiglioso continua a scendere questa pioggerellina pettegola, che porta giù domande senza risposte. Prima di varcare il cancello, faccio ciao con la mano verso la facciata del palazzo. So che il papà ci vede poco, ma ci provo. E lui, dal balcone di casa, risponde: alza il braccio e fa ciao. Mi ha visto. O forse ha sentito. Risalgo in macchina. Mi aspettano seicento chilometri di pensieri attorcigliati.

 

Aldo Maria Valli

 

 

 

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