Se il prete non ha tempo per pregare. I consigli di Martini

Spesso incontro preti che si lamentano perché, dicono, non riescono a trovare il modo e il tempo per pregare e nutrire come vorrebbero la loro vita spirituale. Presi da mille altri impegni, semplicemente non ce la fanno. I preti diminuiscono, quelli che restano sono sempre più anziani, le parrocchie sono tante, c’è sempre da correre. Allora, come fare?

In questi giorni la casa editrice Àncora ha mandato in libreria un libro (poco più di cento pagine: va bene anche per chi non ha tempo!) in cui la questione è affrontata dal cardinale Carlo Maria Martini. Il titolo è Come Gesù gestiva il suo tempo. Piccola regola di vita per il discepolo del Signore, e il curatore è don Dino Pessani, che ha compiuto un bel lavoro di revisione su alcuni testi dattiloscritti del cardinale Martini conservati nell’Archivio storico diocesano di Milano.

Si tratta delle meditazioni tenute da Martini in un corso di esercizi spirituali in Messico nell’agosto del 1988 e di quelle, sul tema della santità sacerdotale, che il cardinale tenne nel 1987 in due occasioni: per l’incontro con il clero della zona pastorale VI della diocesi ambrosiana nel settimo anniversario della sua ordinazione episcopale e per la beatificazione di Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921.

I destinatari delle riflessioni di Martini sono i presbiteri, con tutti i loro problemi e i loro affanni. Preti chiamati a essere tali in questo nostro tempo malato di mancanza di tempo.

Il cardinale ammette che anche per un bravo presbitero, scrupoloso e pieno di fede, una vita di preghiera degna di questo nome è certamente un obiettivo difficile da raggiungere, ma non bisogna mai dimenticare che «il Vangelo ci dice che ciò che non è possibile per gli uomini, lo è per Dio»: quindi i presbiteri ricordino che non sono di fronte a un traguardo da perseguire con le loro poche forze, ma a un dono da chiedere a Dio.

Come?

Qui Martini, Vangelo alla mano, dimostra che Gesù, pur impegnatissimo nella predicazione, preso dal rapporto con i discepoli e coinvolto nel contatto con le folle, pregava in continuazione  e non faceva che ritagliarsi momenti di solitudine e silenzio proprio per pregare. E poi, anziché introdurre complicati ragionamenti teologici, il cardinale fa un paragone con le scalate in montagna, che gli piacevano tanto. «Quando vedo da lontano una parete di montagna, mi dico che è impossibile scalarla, perché è troppo impervia. Chi ama la montagna – io sono uno di quelli – e si avvicina alla parete, si accorge però che essa ha molti piccoli appigli, quasi invisibili ma sufficienti per iniziare. Ciò che sembrava impossibile da lontano, è possibile da vicino».

Quali sono dunque questi appigli da utilizzare per la vita di preghiera? Da vero esperto, il cardinale dice che devono essere almeno tre (potrebbero bastarne due, ma sarebbe troppo pericoloso) e il primo è la fedeltà alla preghiera in tutte le sue forme: celebrazione eucaristica, breviario, amministrazione dei sacramenti. Ciascuna di queste attività è preghiera. E qui Martini confessa che per lui diventare vescovo fu una grande grazia, perché, dovendo presiedere tante celebrazioni, incominciò a pregare molto di più di quando era un teologo e un professore, e sicuramente, dice, «è più facile la vita  del vescovo che la vita del professore, perché il vescovo è aiutato da tutte queste preghiere».

Secondo punto: ricavarsi ogni giorno tre piccoli momenti. Alla sera, leggere il Vangelo del giorno seguente e incominciare a rifletterci. Al mattino, riprendere la lettura della sera precedente fino a trasformarla in orazione. All’inizio del pomeriggio, prima di un eventuale pausa di riposo, riprendere il messaggio del Vangelo e pregarci sopra. «Nessuno – commenta Martini – può dire di non riuscire a trovare il tempo per questi tre momenti, brevi ma collegati tra loro».

E il terzo appiglio? È l’invito a dedicarsi a qualche lettura spirituale o teologica interessante, che si può fare anche quando il tempo a disposizione è poco: per esempio mentre si viaggia in metropolitana, in treno o sull’autobus. E qui Martini racconta: «Un grande vescovo domenicano mi diceva che se non si fanno quattro ore di lettura al giorno, non si può fare bene il proprio dovere». Commento da gesuita: «Questo, naturalmente, va bene per i figli di san Domenico, non per noi, non per tutti i battezzati! Per me è sufficiente un tempo fisso per una lettura spirituale, teologica, biblica, che mi alimenti e mi sostenga nella vita e nel ministero».

Volendo, ci sarebbe poi un quarto appiglio, ovvero un tempo più ampio di preghiera da ricavarsi qualche volta nel corso dell’anno, per «ritrovare quanto abbiamo smarrito perdendo l’uno o l’altro appoggio».

Se il prete, spiega il cardinale, riesce a individuare questi sostegni e a tenerli uniti, può anche arrivare al traguardo della preghiera continua, tanto cara alla spiritualità orientale (si vedano i Racconti di un pellegrino russo). Questi sostegni, infatti, permettono di «salire al monte di Dio, la montagna della preghiera continua». L’importante è il metodo e la fiducia nel Signore. Come per chi arrampica non si tratta tanto di sfiancarsi in uno sforzo fisico ma di trovare un ritmo e un equilibrio, fino al punto che salire in sicurezza non è più una fatica ma un piacere, così per chi prega si tratta di affidarsi ad appigli sicuri, ogni giorno, costantemente, e  «con questo esercizio si giunge a poco a poco a comprendere che realmente non siamo noi a pregare, ma è lo Spirito che prega in noi».

A questo punto il cardinale fa un’altra confessione: a volte, quando, alla fine di una faticosa visita pastorale, mi capita di dover celebrare una messa solenne dopo aver tenuto tanti incontri con la gente, avverto una grande stanchezza, e allora «mi lascio guidare dallo Spirito Santo, mi lascio portare dalle orazioni della Chiesa, dai gesti, dalle parole della liturgia».

Quel lasciarsi portare dalle orazioni della Chiesa mi sembra un’immagine molto bella. Non dobbiamo pretendere troppo da noi stessi, pensare che dobbiamo sempre inventare qualcosa di nuovo e di speciale: c’è tutta la tradizione della Chiesa che è lì apposta per aiutarci.

Come abbiamo visto, Martini, da buon biblista e studioso della Scrittura, parla di «appigli» o «sostegni» che arrivano dalla Parola. Una Parola che deve quindi essere proclamata come si deve. E più avanti, in una riflessione sulla celebrazione eucaristica, sottolinea proprio quanto sia necessaria «una proclamazione intelligente, degna, forte, pacata della Scrittura». Cosa che, purtroppo, non sempre avviene.

E qui ecco un’altra rivelazione personale: «Devo confessare che una delle occasioni per me di qualche nervosismo è quando, durante le celebrazioni eucaristiche che presiedo nelle parrocchie delle diocesi, mi capita di sentire un lettore che va a leggere e non si capisce bene quello che proclama. Legge tanto per leggere, ma si ha l’impressione che né lui sia molto attento a ciò che legge, né la gente sia molto attenta a ciò che sta ascoltando» .

Come la capisco, padre Martini! La proclamazione sciatta o addirittura incomprensibile della Parola mi fa soffrire tantissimo e anche per me è fonte, se posso dirlo, di «qualche nervosismo». È vero che «si tratta di piccole cose, di dettagli», ma è altrettanto vero che «l’eucaristia vive di queste piccole cose».

A proposito di liturgia e di celebrazione eucaristica e della Parola, bisogna dire che da Martini, assieme a tanti consigli, arriva un giudizio molto forte, direi severo. Commentando una meditazione di Giuseppe Dossetti tenuta nel 1986, nella quale il monaco metteva in guardia dalle «attualizzazione discutibili» della liturgia della Parola e dal rischio di ridurla a «un esanime, pigra ed accelerata appendice di una predica prolissa e vacua», il cardinale afferma che una liturgia squilibrata e una celebrazione eucaristica condotta in modo superficiale, abitudinario e piatto, anche se conserva oggettivamente il suo valore, «non è fonte di nutrimento per il ministro che la celebra e rischia di provocare il giudizio di Dio su coloro che si assumono questa tremenda responsabilità di svilire agli occhi degli uomini l’atto supremo dell’amore di Cristo».

Non sono parole usuali in Martini, e per questo fanno pensare.

 

Aldo Maria Valli

 

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