La Via Crucis di quartiere

La croce di legno è portata da un bambino. Attorno a lui i coetanei che frequentano il catechismo. Il parroco raccomanda a tutti: «La croce davanti! Noi dietro! La croce deve precederci!».

La serata è fresca, quasi fredda, ma tantissime persone si sono riunite. La Via Crucis parte dal piazzale della parrocchia e si snoda lungo una strada in salita. Le stazioni sono di fronte ad alcune case, dove sono stati allestiti piccoli altari. Qualche automobile è costretta a fermarsi e a spegnere il motore, in attesa che la processione passi, ma nessuno suona il clacson o protesta.

Sono state distribuite candele, così tante luci punteggiano la via. Di fronte a ogni stazione ci si ferma, si ascolta una breve meditazione, si prega, ci si inginocchia. Per meglio diffondere la voce, un volontario trascina un diffusore montato su ruote e collegato al microfono.

Quando si arriva davanti alla casa di qualcuno che soffre il parroco lo dice, così che la preghiera si faccia più intensa, più partecipe e commossa. Il parroco fa anche i nomi delle persone che vivono lì. La comunità parrocchiale è al corrente, non ci sono problemi di riservatezza. Dopo la preghiera, un abbraccio, un  bacio, una carezza: un gesto di condivisione e di tenerezza per chi sta soffrendo, per chi sta portando dolorosamente la propria croce, .

Procedere in salita, tutti in gruppo, richiede qualche sforzo. I bambini si distraggono, si sente un certo brusio, e il parroco li richiama: «Silenzio!». I più anziani restano un po’ indietro, ma alla successiva stazione il gruppo si ricompone. Qualche cane, spaventato dall’improvvisa irruzione di tanta gente sulla strada, si mette ad abbaiare.

Le meditazioni propongono un pensiero per noi, per me. Gesù non è venuto a eliminare il male e il peccato dal mondo, come per magia. È venuto ad assumerli, a farli propri. Li ha presi su di sé per la redenzione di tutti. A ogni stazione il mistero della Croce è riannunciato, direi attualizzato, tra le case del quartiere.

Mentre salgo, con la mia candelina accesa in mano, lancio di tanto in tanto un’occhiata alle finestre, alle luci accese al di là dei vetri. Distinguo qualche ombra. Spesso le finestre sono protette da inferriate: il prezzo da pagare alla necessità di garantire la sicurezza.

Guardo le auto parcheggiate davanti alle case e penso che in fondo gran parte della nostra vita trascorre dentro scatole. Usciamo dalla scatola dell’appartamento, ci infiliamo nella scatola dell’automobile, entriamo nella scatola dell’ufficio.

Qualcuno adesso starà cenando, altri saranno davanti alla televisione. Che cosa penseranno di questi loro concittadini che camminano dietro una croce di legno? Quali le preoccupazioni? Quali i desideri, le speranze? Il marito e la moglie che vivono lì si vorranno ancora bene? E il giovane che intravvedo dietro quel vetro sarà contento della sua vita?

Penso anche a un bel libro, un librone di più di cinquecento pagine, che mi è stato regalato da un amico siciliano, Michele Vilardo. Si intitola «Il lutto e la luce» e illustra, con una ricchissima dotazione fotografica, i riti della Settimana santa nella Sicilia centro-occidentale. Ecco la cosiddetta «pietà popolare». Ecco volti, storie, tradizioni. Sacre rappresentazioni che coinvolgono tantissime persone, molte delle quali magari non vanno a messa, o ci vanno di radio, ma si sentono parte di una cultura, di una storia, e mai vorrebbero rinunciare a un cammino comune, nel quale si riconoscono.

Siamo nel cuore dell’anno liturgico, del mistero cristiano, e il regalo del professor Vilardo mi fa meditare su quanto la fede religiosa sia e resti centrale per noi tutti, in questa nostra Italia. Certo, da regione a regione le differenze sono notevoli, ma la nostra storia è questa. Così, mentre, con la mia candelina in mano, percorro la strada in salita, le fotografie del libro arrivato dalla bellissima Sicilia si mescolano alle immagini che ho davanti a me, in questa periferia romana. Siamo uno strano paese, dopo tutto. In superficie molto secolarizzato, ma forse non così tanto come potrebbe sembrare.

Ed eccoci arrivati in cima: metà strada. Siamo nel piazzale davanti a una scuola media. Il parroco chiede che chi studia o ha studiato qui alzi la mano. Il pensiero va in particolare a chi ha trascorso o sta trascorrendo anni della sua vita sui banchi di questa scuola. Ma qui abita anche una famiglia la cui croce è particolarmente dolorosa: una figlia malata, un Calvario silenzioso, quotidiano. Ecco il papà e la mamma. Per loro una preghiera speciale, un pensiero pieno di affetto e di partecipazione.. Ci si guarda, ci si riconosce. Non si scappa via di fretta. Così queste case, che di solito sembrano soltanto fare da sfondo a una vita che scorre tra mille impegni, diventano luoghi di umanità

La Via Crucis prosegue in discesa. Meno faticoso, ma per le ginocchia di qualcuno non meno impegnativo. La processione si snoda ora più silenziosa e composta. Anche i ragazzini, un po’ stanchi, sono meno vivaci. Ecco un bambino piccolo crollato dal sonno: la mamma lo porta in braccio, ma riesce a conservare tra le mani la sua candela accesa.

Prima di tornare al piazzale della parrocchia, per l’ultima stazione, si fa tappa davanti a un’altra casa abitata dalla sofferenza. Anche qui il parroco fa i nomi: tutti conoscono la situazione. Si dice spesso che le periferie delle grandi città sono luoghi anonimi, e in parte è vero. Ma questa croce di legno e questa processione dicono che l’anonimato lo si può squarciare: è come un telo scuro che si può rompere con l’amicizia, così da lasciar trapelare i volti delle persone.

Alla fine della Via Crucis, davanti alla statua della Madonna e al praticello ornato di fiori, il parroco ringrazia tutti di cuore e chiede un applauso per i bambini, perché sono stati bravi. Poi dà appuntamento per la messa nella domenica delle palme. Un ultimo saluto, poi tutti a casa. Dentro queste nostre case che stasera, qui, grazie a una croce di legno, non sembrano più semplici contenitori.

Aldo Maria Valli

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