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Nella vigna. Per il Signore

Se ci pensiamo, c’è qualcosa di paradossale e, nello stesso tempo, di altamente significativo nell’incontro internazionale che sta per aprirsi a Roma sulle perplessità e i disagi nati in numerosi fedeli cattolici a causa di alcuni contenuti di «Amoris laetitia».

L’aspetto paradossale sta nel fatto che i partecipanti, tutti laici, si riuniscono perché vedono nel documento dei vescovi elementi di confusione sotto il profilo sia dottrinale sia pastorale e chiedono che si faccia chiarezza. Abbiamo dunque laici che chiamano in causa i pastori e li mettono in guardia su questioni non secondarie, ma centralissime, per la vita di fede, quali il significato dell’eucaristia, la cogenza della norma generale rispetto al caso particolare, il rapporto tra verità e giustizia, la capacità di distinguere tra bene e male in senso non soggettivo ma oggettivo.

Per dirla con un’immagine forzata ma forse efficace, è come se i passeggeri di un aereo si riunissero per mettere in guardia i piloti circa alcuni problemi fondamentali riguardanti la guida dell’aereo stesso. Il parallelo, lo so, è alquanto grossolano, perché la Chiesa, a differenza di un aereo, non è un posto nel quale si decide di entrare e uscire a piacimento, a seconda delle necessità, e dove il passeggero è semplicemente trasportato. La Chiesa è una comunità di fede, nella quale tutti, «piloti» e «passeggeri», condividono, sia pure a diverso titolo, la responsabilità del «volo». Tuttavia occorre ammettere che ben di rado si vedono laici cattolici riuniti da soli, senza la guida di un cardinale, un vescovo, un monsignore o almeno un semplice prete, per discutere di questioni che riguardano in prima istanza i contenuti fondamentali della fede. E ancora più raro è vedere laici che decidono di uscire allo scoperto per rivolgersi ai pastori con un ammonimento che suona così: «Scusate tanto, ma guardate che secondo noi in ciò che avete prodotto c’è qualcosa che non funziona e che può diventare pericoloso non solo e non tanto in senso astratto, ma proprio per la salvezza delle anime».

Che la situazione abbia un che di paradossale lo si deduce anche dalla lettura della «Christifideles laici», l’esortazione apostolica post-sinodale che nel 1988 il papa Giovanni Paolo II dedicò alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo. In quel testo, prendendo spunto dal Concilio Vaticano II, il papa sottolinea con grande decisione che gli operai nella vigna del Signore sono tanti e di diverso tipo, che ognuno ha un ruolo proprio e che quello del laico non è soltanto di supplenza nei confronti del consacrato ma ha un profilo preciso, che ne fa un testimone e un apostolo attivo nel mondo. Tuttavia, leggendo il testo con il pensiero rivolto a quanto sta per accadere a Roma con l’incontro dei laici riuniti sui dubbi sollevati da «Amoris laetitia», ci si accorge che l’ipotesi di laici autoconvocati per tirare la tonaca ai vescovi e per dire loro che si sono messi su una strada pericolosa, non è presa in considerazione. Si parla sì di collaborazione pur in presenza di ruoli diversi e si sottolinea la dignità del ruolo del laico, ma l’idea sottesa al documento è che il laico vada per il mondo portando con fiducia il messaggio elaborato dai pastori. Tanto è vero che in tutto il testo l’eventualità che siano i laici a istruire o quanto meno a richiamare i pastori su questioni di fede è accennata in una sola riga, con queste poche parole: «A loro volta, gli stessi fedeli laici possono e devono aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e pastorale».

Ecco perché in quanto sta per avvenire a Roma c’è qualcosa di paradossale. Ma proprio i fattori che rendono l’appuntamento un po’ paradossale sono anche quelli che lo rendono importante. In un momento in cui spesso, anche all’interno della Chiesa, si fa un uso quanto meno superficiale della parola «popolo», ecco che una bella fetta del popolo di Dio prende l’iniziativa e, con tutto il rispetto dovuto ai pastori e con tanto amore per la Chiesa, segnala che su alcune questioni nodali occorre fare chiarezza e che se non lo si farà si andrà incontro a conseguenze pesanti.

A questo proposito, nella «Christifideles laici» Giovanni Paolo II fa riferimento ad alcune espressioni molto pertinenti dell’esortazione «Evangelii nuntiandi» di Paolo VI: «La Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del Messaggio che essa proclama (cf. Rom 1, 16; 1 Cor 1, 18; 2, 4), cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l’attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l’ambiente concreto loro propri. Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti d’interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo così: occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo (…). La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture».

Sappiamo che queste parole di Paolo VI troppo spesso sono state usate per favorire un compromesso al ribasso tra Vangelo e cultura. Eppure sono chiare: si parla della necessità di convertire la coscienza personale, di sconvolgere i criterio di giudizio con la forza del Vangelo.

Occorre dire che non siamo abituati a questo linguaggio. Oggi parliamo più volentieri di accoglienza, accompagnamento, discernimento. E va bene. Ma non rischiamo forse di dimenticare che la Verità evangelica irrompe nel mondo per trasformarlo radicalmente e che l’apostolo, consacrato o laico che sia, è al servizio non del mondo e dei suoi dogmi ma di questa forza trasformatrice?

Torno sull’idea di popolo e lo faccio di nuovo con Giovanni Paolo II:  «Operai della vigna sono tutti i membri del Popolo di Dio: i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i fedeli laici, tutti ad un tempo oggetto e soggetto della comunione della Chiesa e della partecipazione alla sua missione di salvezza. Tutti e ciascuno lavoriamo nell’unica e comune vigna del Signore con carismi e con ministeri diversi e complementari» («Christifideles laici», n. 55).

Per la Chiesa il popolo è questo: comunità di operai impegnati nella vigna del Signore. Quindi al servizio del Signore, non del mondo.

«A un anno dall’”Amoris laetitia”. Fare chiarezza». L’incontro di Roma si intitola così. Non c’è scritto «contro il papa». Quelli che si riuniscono sono fedeli che, con piena consapevolezza del proprio ruolo e avendo assimilato la lezione del Concilio, si assumono le loro responsabilità di laici, cioè di gente «del popolo», come dice l’etimologia di «laikos». Se e quando, durante i lavori, il pensiero andrà al papa, ci andrà sempre, ne sono più che convinto, per esprimergli amore filiale e tutta la specialissima devozione che ogni figlio della Chiesa nutre per il successore di Pietro.

Aldo Maria Valli

 

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