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Cronache dall’oratorio estivo

Ecco qua. Chi l’avrebbe mai detto? Per due settimane sono tornato all’oratorio. Dopo quasi mezzo secolo. Mezzo secolo!

Chi poteva spingermi a un’esperienza del genere? Ma Santa Subito, naturalmente! Lei lì è di casa. In inverno fa la catechista, in estate si occupa dell’accoglienza e dell’amministrazione. Insomma, è una colonna. Solo che fare la colonna dell’oratorio richiede tempo, e il tempo è sempre poco, e mentre lei fa la colonna io faccio (cerco di fare) il giornalista, e insomma ci vediamo di rado. Così, quando finalmente il mio capo redattore («mirabile dictu!») mi ha concesso un po’ di ferie, ho preso la grande decisione. Com’è che si dice? Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna… O è il contrario? Non mi ricordo mai. Comunque, sono andato all’oratorio.

Solo che la Chiesa cattolica, come sapete, è fatta in un certo modo. Non è che uno può presentarsi in parrocchia e dire: buongiorno, sto qui a fare compagnia a Santa Subito, possibilmente all’ombra del porticato, dove di tanto in tanto un bava di venticello porta conforto a un sessantenne stressato, che non sopporta il caldo estivo e, fosse per lui, vivrebbe volentieri nel Galles del Nord, in uno di quei paesini i cui nomi impronunciabili incominciano con due elle, tipo Llandudno, la gente si esprime con suoni gutturali e tu puoi fumare la pipa davanti alla tua casetta di mattoni rossi. No, la Chiesa cattolica ti deve dare un ruolo. Se tu ci vai, devi andarci per uno scopo. Ma io, quasi vecchio e incapace a tutto, che cosa potrei mai fare nella parrocchia? Che cosa potrei mai fare nell’oratorio estivo frequentato da decine di bambini e ragazzi oltre che da un manipolo di indomite catechiste e altri volontari che sanno rendersi disponibili in mille modi? Niente, temo. Non so fare niente. Impossibile solo pensarci.

Ma per Santa Subito la parola «impossibile» non esiste. E così, dopo che io, sulla base del famoso ragionamento a base di Maometto e montagna, mi sono imprudentemente detto disponibile («magari qualche volta») a seguirla in parrocchia durante le mie agognate ferie, lei, che non solo è filosofa ma è anche furbissima, ha puntato dritto là dove sapeva che avrebbe potuto trovare uno spiraglio:

«Senti un po’…».

«Dici a me?…»

«Dico a te…»

«Sì?…»

«Che ne diresti di giocare a pallacanestro con i nostri bambini?».

Ora, ditemi voi se questa non è scaltrezza tipica di chi è avvezzo a frequentare luoghi clericali. Alla parola «pallacanestro» una lucina da qualche parte si è accesa dentro il sottoscritto e un leggero brivido mi ha attraversato le gambe anchilosate, è salito su per la schiena stortignaccola ed è arrivato fino ai polpastrelli.  Sono andato ad aprire l’armadio ed ecco: il pallone era lì. Tristemente fermo, era come si mi guardasse e mi dicesse: «Era ora, vecchio mio. Tirami subito fuori di qui!». L’ho afferrato, era sgonfio. Ho cercato e trovato la pompetta, l’ho gonfiato, ho provato a palleggiare in salotto. Ho intuito che durante i miei goffi tentativi Santa Subito, con sguardo sardonico, mi osservava. Mi sono sentito sfidato e ho detto: «Ci sto!».

Insomma sono caduto in trappola, e così per due settimane ho giocato a pallacanestro nell’oratorio della nostra parrocchia di periferia, con bambini dai sei ai dieci anni circa, e anche con qualche educatore un po’ più grandicello.

Dico che «ho giocato» perché è andata proprio così. Sulla carta il mio avrebbe dovuto essere un «laboratorio di basket», ma questo linguaggio moderno non fa per me. Per noi che eravamo bambini negli anni Sessanta del secolo scorso niente laboratori, troppo complicato. Ho lanciato la palla a spicchi per aria e ho detto: «Sotto ragazzi, adesso si gioca!». Ed è incominciato il divertimento.

Temevo che i bambini, nel vedere un buffo signore con i capelli grigi e la barba bianca, in maglietta e pantaloncini, potessero dirmi: «Nonno caro, fatti in là». Invece è scattato subito un bel «feeeling».

C’è da dire che la pallacanestro non è uno sport facile. Non è come il calcio, che più o meno è alla portata di tutti, perché una pedata al pallone è un gesto istintivo. Nel basket ogni movimento va controllato e coordinato, e poi ci sono le regole, numerose, e poi c’è il canestro, che sta terribilmente in alto. La prima reazione, di fronte alle difficoltà, può essere dunque la rinuncia: «Troppo complicato per me, torno sul campo di calcetto».  Ma per fortuna non è andata così. I bambini e i ragazzi (che significa anche bambine e ragazze, sia pure in minoranza) hanno dimostrato coraggio. Nessuno si è tirato indietro, nemmeno quei soldi di cacio della prima elementare, che anzi hanno sfoderato una grinta da veri duri.

Da parte mia, mi sono ben guardato dal mettermi a fare l’istruttore. Diciamo che mi sono limitato a organizzare un po’ il gioco, e la soddisfazione più grande l’abbiamo avuta nelle gare di tiro. Nonostante il caldo soffocante, la concentrazione è stata massima e tutti quanti, alti o bassi, magri o grassi, prima o dopo sono riusciti a infilare la palla nel canestro.

Ho ancora negli occhi lo sguardo dei bambini, la loro applicazione. Ecco il canestro lassù, a più di tre metri dal suolo. Ci vorrebbe un cesto da mini-basket, ma qui non c’è e bisogna adattarsi. La palla è pesante e terribilmente grande per le mani piccoline, eppure da quelle mani, da quelle braccia, da quelle gambette al momento giusto si sprigiona una forza insospettabile. E non importa se la prima volta fallisci, e anche la seconda e anche la terza. «Dai, forza, spingi, vedrai che ce la fai!». E quando poi la palla finisce dritta dritta nel canestro e si sente quel «ciuff» tipico della retìna smossa, la gioia può esplodere. Qualcuno si confonde e grida «gol!», qualcuno si abbraccia, qualcuno si mette già in posizione per emulare il compagno che ce l’ha fatta. Ed ecco che un ragazzino lascia il campo del calcetto e si presenta da noi: «Posso giocare?». Ma certo che puoi! Mettiti in fila, ragazzo! (Enorme soddisfazione del sottoscritto).

Ci siamo sfidati per due settimane e alla fine tutti hanno dimostrato grandi progressi nel maneggiare la palla. D’accordo, per qualcuno è ancora difficile ricordare che dopo aver interrotto il palleggio non lo si può riprendere, ma bisogna passare la palla a un compagno o tirare a canestro. Altri hanno ancora difficoltà nel muoversi palleggiando e ogni tanto vanno a zonzo per il campo tenendo la palla tra le braccia. Ma nessuno ha mai avuto la pretesa di diventare un Michael Jordan e nemmeno un Marco Belinelli o un Danilo Gallinari. In compenso credo proprio che tutti si siano divertiti.

Molte le domande che mi hanno fatto sorridere, risvegliando lontanissimi ricordi rimasti chiusi nell’armadio insieme al pallone: «Aldo, ma tu sei un maestro di basket?». Oppure: «Ma tu giocavi in serie A?». «Aldo, per quanti anni hai giocato?». No, cari ragazzi, non sono un «maestro di basket» e non ho mai giocato in serie A (se è per questo, neanche in serie B o C). Ho giocato dai nove ai sedici anni e poi ho smesso, un po’ perché ero una schiappa e un po’ perché dovevo studiare. Ma la palla la so ancora maneggiare, perché certe cose quando le impari da bambino non le dimentichi più: come andare in bici.  E spero proprio che dopo questa esperienza anche a voi sia rimasta appiccicata addosso la passione per un gioco così bello e intelligente.

Devo dire che, prima di misurarmi con questi ragazzi, temevo di non saper imporre la disciplina. Immaginavo che sarebbe stato difficile tenerli a bada, evitare scontri e litigi, dare un ordine alle attività. Invece i miei compagni di gioco sono stati correttissimi. Unico neo, durante le sfide al tiro, una certa propensione alla polemica: «Aldooo! Guarda! Lui è andato oltre la linea bianca!»; «Lui mi ha spinto!»; «Lui mi ha distratto, l’ha fatto apposta!». All’inizio sono rimasto indeciso sui provvedimenti da prendere. Poi ho deciso di non prenderne affatto. Mi sono limitato a far presente che più si parla, meno si gioca, e meno si gioca, meno ci si diverte. Non dico che gli scontri  verbali siano spariti, però sono stati ridimensionati, e io sono contentissimo di non aver mai allontanato nessuno dal campetto.

Ora il mio fisico di sessantenne reclama (specie la schiena), ma per metterlo a tacere mi basta ripensare a tutti i momenti belli, come quell’abbraccio spontaneo che un bimbetto felice ha voluto regalarmi in mezzo al campo.

Va bene, sarà meglio che chiuda qui, prima di fare la figura del vecchio sentimentale.

E Santa Subito? Devo dire che il suo sorrisetto di soddisfazione mi inquieta. Avverto che sta tramando qualcosa. Mi tengo un po’ alla larga. Temo che da un momento all’altro possa sorprendermi alle spalle con uno dei suoi  «senti un po’…».

Aldo Maria Valli

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