Bambini & parole

«Cacanze!!!».

Il mio nipotino, ventotto mesi, nell’ultimo giorno di asilo è uscito di corsa dall’edificio scolastico gridando a squarciagola questa parola. Un neologismo che trovo di formidabile efficacia.

Felice di essere finalmente in «cacanza», il bimbetto è partito per Roma con i nonni, ovvero Santa Subito e il sottoscritto, ed ha prodotto un’altra parola di grande impatto: «Fecciarossa». È il treno ad alta velocità sul quale abbiamo viaggiato da Milano a Roma, e non è un termine denigratorio. Semplicemente, il bimbetto non pronuncia ancora la erre.

Siccome però, qualche giorno prima, il suddetto Frecciarossa era rimasto bloccato per ore dentro una galleria, sulla Roma-Firenze, con i passeggeri al buio, senza aria condizionata e con finestre e porte bloccate, io, che sono sempre un po’ ansioso, alla vigilia della partenza sono stato colto da un pensiero: «Il bimbetto avrà per caso capacità divinatorie? Possibile che riesca ad avvertire in anticipo se una freccia può trasformarsi in feccia?».

Arrivati alla Centrale, veniamo accolti da un annuncio che sembra legittimare i pensieri più cupi: «Saranno possibili ritardi fino a sessanta minuti» dice l’inquietante voce prodotta dall’orrendo sintetizzatore vocale (e a me sembra di vedere il robot che, mentre dà l’annuncio, trattiene uno sghignazzo).

Per fortuna il viaggio è andato benissimo. Solo che il piccolo milanese, il quale nutre una spiccata passione per i treni, a lungo non si è capacitato del fatto che a «Oma», ovvero a Roma, non ci siano i «Tenod», ovvero i treni delle ferrovie Trenord, per cui ci è voluto un bel po’ prima di placarlo. E quando poi, finalmente, gli abbiamo inculcato l’idea che a queste latitudini  «Tenitalia» fa man bassa e «Tenod» non esiste, lui dapprima ci ha guardati sgranando gli occhioni e infine ha buttato là un «perchèèè?» con un accento così grave, ma così grave, che a noi è sembrata una vendetta di sapore leghista e molti passeggeri, lanciandoci occhiatacce, hanno trattenuto un’esclamazione di rimprovero.

Oggi il nipotino ambrosiano e la cuginetta  nata a «Oma» si incontrano, e mi piacerebbe proprio essere presente. Invece mi devo accontentare delle notizie divulgate dalle zie.

La cuginetta romana è di poche parole, ma una la dice in modo inequivocabile: «Annamo». Sarebbe «andiamo», e mi chiedo che cosa ne penserà il cuginetto lombardo. Forse guarderà la nonna, sgranerà gli occhioni e chiederà: «Perchèèè?».

Quando sto con i nipotini mi tornano alla mente le parole inventate dai nostri figli da piccoli. Il repertorio è sconfinato. Si va dalle «putande» di Giovanni in luogo delle mutande ai famosi «caccosa» e «caccuno» di Giulia e Giovanni al posto di qualcosa e qualcuno.  E poi c’era il «carboncino» in cui Silvia aveva trasformato il nostro camioncino (anche se in realtà era un pullmino) e il «cimenam» che le gemelle («megelle») Anna e Paola avevano inventato al posto del cinema e dove, immancabilmente, un «Cimpite» e una «Cimpitessa» vivevano una stupenda favola d’amore, magari in mezzo a un bosco nel quale gli uccellini facevano «pic pic», come tempo prima aveva spiegato la solita Silvia.

A proposito di Silvia, va detto che il suo «spaziale», individuato una sera nel cielo estivo  mentre eravamo a bordo del «Carboncino», fece epoca e, sebbene per noi non fu agevole capire che si trattava di un aeroplano scambiato per astronave, ancora oggi vale per oggetto volante non identificato.

Appartiene al vocabolario silviesco anche il «guidante» in luogo del volante, nonché una parolaccia che la bimba, al colmo di una crisi di nervi, esplose un giorno con massima esasperazione contro il sottoscritto e il cui significato recondito (forse per pietà) non fu specificato né allora né mai: «Stacciòne!».

«Cucè?» avrebbe chiesto la piccola Giulia. Ovvero: che cos’è? E suo fratello Giovanni avrebbe potuto spiegare che «dintro» una parola si nascondono molteplici significati.

Studiare il linguaggio mi è sempre piaciuto, e così i bambini possono diventare le mie cavie. Ma loro, proprio tramite le parole, si ribellano, ed ecco che i neologismi si intrufolano nel lessico familiare e non ne escono più. Per cui da noi ancora oggi è del tutto normale che una lampadina si «allumini», un «dedè» (insetto) venga scoperto sotto il divano, nel frigorifero ci sia un vasetto di «goggut» scaduto, si cerchi un volontario che svuoti la «pattuniera», a qualcuno venga da «gomitare», il nonno non trovi le «tantofole», la «scrivamia» sia ricoperta di libri, dal rubinetto non scenda neanche una «guccia»,  il cesto dei panni da lavare sia pieno «zecco» di roba e, per favore, mi passi un «tavagliolo»?

Tanti anni fa il trasferimento da Milano a Roma allargò ulteriormente gli orizzonti, per cui la nostra ultimogenita Laura, l’unica figlia nata all’ombra «der Cupolone», a un certo punto si sentì legittimata a rivendicare i suoi spazi utilizzando come grido di guerra un inatteso «Pur io! Pur io!». E quando un giorno, tornando dalla scuola materna, le chiedemmo come avesse trascorso la giornata e lei, tutta contenta, rispose  che aveva giocato ad «acchiapparella», capimmo che la contaminazione era cosa fatta e che la multiculturalità sarebbe stato il nostro destino.

Comunque, tornando al nipotino che è da noi in «cacanza», la prossima sfida sarà convincerlo che si dice un altro e un’altra, non «un acchio» e «un’acchia», anche perché quando siamo in pubblico e lui, come un aquilotto, dopo aver mangiato un gelato si mette a gridare ai quattro venti «un acchiooo, un acchiooo!», c’è sempre «caccuno» che ci guarda senza capire e con l’idea che «caccosa» in questa strana famiglia proprio non funzioni.  Al che, se il bimbetto non la pianta, Santa Subito, dall’alto della sua saggezza, come «extrema ratio», si guarda intorno e fa: «Annamo!».

 

Aldo Maria Valli

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