La tentazione e i suoi rimedi

Il dibattito sulla nuova versione del Padre nostro si arricchisce oggi di un’altra riflessione: è proposta dal padre Giovanni Cavalcoli e fa seguito a quelle di monsignor Nicola Bux, dom Giulio Meiattini e don Silvio Barbaglia.

Padre Cavalcoli si concentra sul concetto di tentazione e sulle ragioni del cambiamento voluto dalla Cei.

A.M.V.

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Che vuol dire essere tentati

A seguito del peccato originale, Dio permette che l’uomo sia tentato, come dice la tradizione ascetica, «dalla carne, dal mondo e da Satana», benché non lo voglia positivamente, perché altrimenti sarebbe crudele. Constatiamo, comunque, che nella vita presente le tentazioni sono inevitabili, anche con tutta la cura per scansarle o per tenersene lontani, che è cosa, per quanto possibile, sempre da fare.

La tentazione al peccato è una pressione esercitata sulla volontà o sulle passioni dell’uomo da parte di cattive tendenze insite nel soggetto, tecnicamente detta «concupiscenza», oppure da parte di agenti esterni (uomini o demonio) e finalizzata a far cadere l’uomo nel peccato.

La tentazione è simile alla prova: nell’uno e nell’altro caso l’uomo riceve una spinta o pressione, che lo mette in pericolo e lo stimola a resistere. Dio però prova l’uomo, ma non lo tenta, perché la prova spinge al bene, mentre la tentazione spinge al male. Dio mette alla prova per fortificare l’uomo, ma non induce in tentazione. Questa è opera della carne, del mondo e di Satana.

Ovviamente l’atto del peccato, al quale induce la tentazione,  in linea di principio è libero e responsabile, con più scelte possibili, perché la volontà per sua natura non subisce costrizione o necessitazione o violenza, a differenza degli agenti fisici, che agiscono deterministicamente ad unum per necessità di leggi fisiche.

Se la volontà è in funzione, l’atto è libero; se non è libero, vuol dire che la volontà  non è in funzione. Si dice che una persona è costretta a fare una data cosa, non perché la sua azione sia necessitata, ma perché la fa malvolentieri e se potesse, ne farebbe a meno. Se poi la volontà è vinta dalla passione o dalla tentazione a peccare, in una cosa piacevole, per esempio un atto lussurioso, agisce certo volentieri, ma in quanto la volontà è vinta dalla passione, non è pienamente libera e quindi la colpa diminuisce. A meno che non sia la volontà a suscitare la cattiva passione; nel qual caso la colpa aumenta.

Per quanto riguarda la condotta da tenere quando ci si accorge di una tentazione reale o possibile, occorre essere modesti, cauti e guardinghi. Non è prudente infatti esporsi alle tentazioni o mettersi in situazioni di rischio o di pericolo, camminare sul ciglio del burrone, se non obbligati da gravi motivi, come il confessore che confessa una bella donna o il medico che deve vedere la nudità del paziente. Inoltre, occorre sapere in anticipo, almeno con una certa probabilità, se la tentazione può o non può essere vinta. Occorre essere coraggiosi, ma non spavaldi, e saper misurare le proprie forze. Non si possono evitare i rischi, ma devono essere calcolati in anticipo.

Dio comunque, dal canto suo, non può abbandonare senza soccorso nella tentazione, se non è il peccatore che volontariamente e presuntuosamente rifiuta il soccorso e cede ad essa, ed è quindi lui ad abbandonare Dio. E neppure Dio induce in una tentazione insuperabile; oppure, insieme con la tentazione, dà la forza di superarla.

Ovvero, se uno crolla sotto una violenta ed insistente tentazione, dopo essersi strenuamente ma inutilmente difeso, gli viene perdonato o per lo meno ha delle attenuanti. Chiedere dunque a Dio che non ci induca in tentazione o che non ci abbandoni alla tentazione è chiederGli esattamente ciò che Egli stesso vuole darci. Non è pensabile infatti che Egli voglia tentarci al male o abbandonarci. Quindi, quando Gli facciamo quelle richieste, Gli chiediamo ciò che Egli già vuole.

Come sappiamo tutti, sta per entrare nell’uso liturgico il mutamento ordinato dalla Cei dell’espressione del Padre nostro «non ci indurre in tentazione» con «non abbandonarci alla tentazione». La cosa può mettere a disagio, in quanto non si tratta di semplici parole diverse, e quindi di una traduzione, ma di concetti diversi. Da qui il timore in alcuni che in questa preghiera fondamentale del cristianesimo sia stato cambiato non tanto il modo di esprimersi del Signore, ma addirittura il contenuto stesso di ciò che Egli  dice.

Ora, per la verità, è impensabile che la Chiesa, fedele interprete del Vangelo, assistita dallo Spirito di Verità, che è lo Spirito di Cristo, cambi i suoi contenuti. Si tratta però – bisogna pur riconoscerlo – non di una semplice traduzione, ma di una vera e propria interpretazione, come in altre occasioni la Chiesa ha fatto e può fare, come per esempio con l’aggiunta della parola «sacrificio», presente nelle parole della consacrazione eucaristica, ma assente nelle parole del Signore nell’ultima Cena, riportate dai Vangeli.

La formula «non abbandonarci alla tentazione» assomiglia di più alla vecchia formula «non indurci in tentazione», anche se nel contempo sostituisce il verbo «abbandonare», che esprime un concetto diverso da «indurre», benché essi possano collegarsi reciprocamente, giacché, se Dio non ci induce in tentazione, vuol dire che non ci abbandona ad essa.

Credo altresì che, benché dovremo accettare il termine «alla» come versione ufficiale della Cei, nessuno ci proibisce di pensare che essa si combini bene con «nella», proposto da altri. Infatti, «abbandonare alla» insinua l’idea di una tentazione non ancora avvenuta, con la supplica sottintesa di essere aiutati, sostenuti o liberati nel caso  che essa si presenti. Ma è evidente che imploriamo l’aiuto divino anche per il caso che la tentazione sia già in atto. Il che è espresso dalla particella «nella».

Se mi è permessa una piccola osservazione circa la particella «alla», è che mi pare che il verbo abbandonare, in italiano, non regge il dativo, ma l’accusativo. Non si abbandona a qualcosa ma si abbandona qualcosa. E benché indubbiamente nella fattispecie in esame ci sia il complemento oggetto «noi», tuttavia l’aggiunta del dativo «alla tentazione» non mi pare cosa consona al modo comune di esprimersi in italiano, ma mi sembra una piccola forzatura.

Tuttavia riconosco che possono esistere espressioni simili, come diciamo, per esempio, «abbandonare al caso o alla sorte o al nemico ».  Invece l’«indurre in» è espressione del tutto usuale, a prescindere dal significato concettuale, che qui adesso non considero. Ma non voglio insistere più di tanto.

Accogliamo con fiducia e intelligenza la decisione della Chiesa, infallibile interprete delle parole del Signore. Con questo cambiamento essa non ha assolutamente voluto dirci – come qualcuno ha pensato – che la formula precedente è «sbagliata». Al contrario, essa resta sempre valida e sacra, benché in sottordine alla nuova.

Sarebbe pazzo quell’archeologo che, avendo scoperto una statua antica più preziosa di quella che già possedeva, buttasse via questa per tenere quella. Così stiamo attenti anche noi a che, sedotti da uno stolto modernismo, non facciamo  una pazzia del genere, ben più dannosa, in quanto coinvolgente la Parola di Dio, che è principio della nostra eterna salvezza, gettando via, in nome di un falso progresso, il buono che già possediamo, solo perché abbiamo trovato il meglio che non possedevamo.

Il progresso nella conoscenza della Parola di Dio, infatti, non é come il computer nuovo che sostituiamo al vecchio, ma è la scoperta dell’aspetto per noi nuovo di una Parola divina, che non passa ed è in se stessa da sempre la stessa.

Perché il cambiamento?

Dall’espressione originaria greca eisenenkes, inducere, indurre – non sappiamo come Gesù si è espresso in aramaico – la Chiesa ha ricavato un «abbandonare». Come è venuto fuori questo significato da quello originario? E qual è stata la ragione del cambiamento? Credo che sia stata la convinzione di fede che Dio non ci lascia soli nella lotta contro la tentazione. Il «non indurre» fa invece pensare, benché erroneamente, a un Dio che potrebbe metterci di proposito nella tentazione, quasi ad averne gusto, il che sarebbe però una bestemmia.

Nella prima espressione, ossia l’indurre in tentazione, sembra che la tentazione possa venire da Dio, che viene scongiurato di non mandarcela, di non farla sorgere in noi. L’attenzione si concentra sulla tentazione, che suscita preoccupazione o ansietà, benché poi abbiamo la certezza che Dio ci aiuterà.

La seconda espressione, invece, ossia l’abbandonare, se intendiamo – come è lecito fare – l’abbandonare «nella», presuppone che la tentazione sia già presente, siamo già sotto il peso della tentazione,  senza che sia precisato da dove viene o chi la manda. Si chiede infatti di non abbandonarci non alla tentazione eventuale, ma nella tentazione già presente.  Questo sia detto senza arrecare alcun pregiudizio alla preposizione ufficiale «alla».

In ogni caso, si usi «alla» o si usi «nella», si esprime una supplica fiduciosa, piena di confidenza, nell’aiuto divino, che certo non mancherà, anche se pure qui, per il fatto stesso di chiedere di non essere abbandonati, sembra che si presupponga che, se Dio volesse, potrebbe abbandonarci, il che ovviamente è impensabile e addirittura blasfemo. Insomma, la seconda espressione manifesta meglio della prima la bontà e la misericordia divine, ci fanno meno temere la tentazione, e ci danno quindi più fiducia di poterla vincere o evitare.

Osserviamo inoltre che se si è abbandonata l’espressione originaria, c’è da pensare che ci sia un vantaggio. E quale? Che «non abbandonare» sembra essere più consono alla bontà di Dio che non il «non indurre», che sa di crudeltà. Tuttavia, anche l’idea che Dio ci abbandoni è spaventosa. Era l’idea che angosciava il Lutero giovane, e che egli credette, per la verità vanamente, di poter cancellare con la sua famosa fede irrazionale, emotiva, fiduciale e fideistica.

Chiedere a Dio di non abbandonarci sembra infatti implicare l’idea che, se vuole, ci può abbandonare. Sia nell’una sia nell’altra espressione sperimentiamo l’imperfezione dell’umano linguaggio, anche nel testo biblico e sulla bocca di Gesù. Occorre, con un intelletto di fede e di amore, trascendere questa imperfezione per lasciarci illuminare, magari nel silenzio, dal Mistero.

Tentazioni vincibili e tentazioni invincibili

Occorre ricordare altresì che Dio ha misericordia per chi cede in parte o in tutto alla tentazione o per debolezza o per mancanza di forze sufficienti, nonostante la buona volontà, eventualmente con concorso di ignoranza in buona fede, anche se si tratta di peccato grave.

Caso emblematico sono le tentazioni sessuali, eterosessuali od omosessuali, o gli stati irregolari, come quello dei divorziati risposati o delle prostitute o situazioni come quella degli adolescenti e dei giovani, nei quali capita che l’impulso, per la sua violenza, sia praticamente irresistibile, mentre il soggetto, per la giovane età o per insufficienze educative, può non avere una volontà sufficientemente forte, oppure certi stati mentali patologici, nei quali il soggetto non padrone di sé, è incapace di controllarsi e con ciò stesso la sua azione non è imputabile.

Qui il bisogno o tendenza sessuale di singolo o di coppia assomiglia a quello della fame o della sete o del sonno o dell’evacuazione, esigenze biologiche insopprimibili. Non dimentichiamo la base biologica dell’attività sessuale. Lutero, che non credeva nel libero arbitrio, pensava che la corruzione della natura umana conseguente al peccato originale comportasse che il peccato mortale è inevitabile. Per avere la speranza di salvarsi, egli allora, come è noto, si fece un’idea della misericordia divina, come se Dio lo perdonasse, benché non pentito; il che invece sono pura illusione e presunzione, perché Dio non può perdonare chi non si pente.

I due generi di tentazione

Altra cosa che riguarda il nostro argomento è che le tentazioni al peccato comprendono due grandi categorie, a seconda dei peccati ai quali tentano. Esistono così tentazioni carnali per i peccati che si riferiscono al corpo e alle passioni, come per esempio la lussuria, l’avarizia, l’ira, la mollezza, la tiepidezza e la gola; e peccati spirituali, che toccano lo spirito, come la superbia, l’orgoglio, l’odio, l’ipocrisia, l’invidia, l’empietà, l’eresia, lo scisma, l’apostasia.

L’allontanamento delle tentazioni richiede a volte una lotta lunga ed aspra, quella che san Paolo chiama «buona battaglia». Tentazioni ci possono venire dai nostri nemici, con seduzioni, inganni o minacce.  Se peccano contro di noi, la tentazione è quella di odiarli. Sappiamo invece che cosa prescrive il  Vangelo: non ripagare il male col male ma col bene.

Ma in tal caso, quale bene? Non è esclusa, come insegna san Tommaso, una giusta vendetta (vindicatio)[1] secondo le norme del diritto. Il dovere della mitezza non autorizza il cristiano ad essere un formaggio squacquarone. Ma può ricorrere a mezzi legali per ottenere giustizia e comunque alla fine c’è la giustizia divina. Altrimenti, che ci stanno a fare i servizi di sicurezza, la magistratura e le forze armate?

Non è sempre facile distinguere i segni di una tentazione da un impulso o a da un’idea che sembrano buoni o addirittura santi. Esistono tentazioni insidiose e seducenti, che occorre saper smascherare. Le più insidiose, pericolose ed affascinanti sono quelle che vengono dal demonio. Occorre molta cura nel saperle riconoscere, ma può capitare che anche dei Santi, almeno momentaneamente, ne restino ingannati.[2]

Questo capita soprattutto quando si tratta di eresie. Il demonio può provocare anche quelle tentazioni,  che generano o diffondono un falso entusiasmo, una falsa mistica o una falsa devozione, con false visioni o falsi messaggi o pratiche spiritiche o magiche o una falsa profezia; oppure, col fanatismo, il fondamentalismo religioso, che porta al terrorismo, la droga e l’indottrinamento politico.

Altre tentazioni sono deprimenti o paralizzanti o gettano nella disperazione o svuotano la vita di senso. Anche qui può agire il demonio. Pensiamo all’esaurimento nervoso o alla paura della morte. Qui occorre più che mai chiedere l’aiuto di Dio. E qui occorre a volte anche un sottile discernimento, col rischio anche di sbagliarsi, e può essere di utilità una guida spirituale.

Finché saremo in questa vita, dovremo sempre combattere contro le tentazioni, perché sempre resta in noi la fragilità e la tendenza a peccare, restando sempre la concupiscenza, nonostante la quale sempre possiamo e dobbiamo riprenderci dopo ogni caduta senza stancarci, col pentimento e la riparazione, chiedendo a Dio che non ci abbandoni alla tentazione.

Ma la concupiscenza non è, come credeva Lutero, uno stato insuperabile di colpa mortale, quasi fosse una seconda natura voluta o permessa da Dio, perché con tale idea errata, succede che si passa da un eccesso all’altro, dalla disperazione alla presunzione, si finisce per cancellare in modo falso l’angosciante senso di colpa sovrastato da un Dio minaccioso sopra di noi; si finisce cioè col capovolgere il senso del peccato e quindi l’odio per esso, sostituendolo con un illusorio adagiarsi nel peccato e con un falso senso di liberazione dalla tentazione, solo perché non ci si impegna in una lotta contro di essa, ritenuta una presunzione ed un inutile tormento, ma si è persuasi che Dio non ci abbandona nella tentazione, non perché ci dà la forza di venirne fuori, ma perché ci giustifica e ci approva «misericordiosamente» nel momento in cui cediamo ad essa.

Padre Giovanni Cavalcoli, op

 

[1] Summa Theologiae, II-II, q.108.

[2] Vedi il mio libro La buona battaglia, Edizioni ESD, Bologna 1986.

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