Fai musica sacra? E io non ti pago!

Si sa che spesso carmina non dant panem, ovvero il lavoro artistico, non riconosciuto in quanto tale, non permette a chi lo svolge di sbarcare il lunario. È una vecchia questione, che proprio in Italia, ahinoi, trova molte conferme e, purtroppo, vede sul banco degli imputati anche la Chiesa, perché si ritiene, a torto, che chi produce arte per la Chiesa lo deve fare da volontario, senza pretendere di essere pagato. Da questo punto di vista il musicista di musica sacra è forse il più misconosciuto degli artisti, come sottolinea il maestro Aurelio Porfiri nell’articolo che qui pubblichiamo, primo di una serie di contributi.

Musicista, compositore, direttore di coro e docente, Porfiri è anche editore, scrittore e promotore culturale. Recenti sono i suoi dialoghi con il teologo Antonio Livi (Dogma, teologia, pastorale. Un teologo parla), e Aldo Maria Valli (Sradicati. Dialoghi sulla Chiesa liquida), entrambi dedicati all’attuale situazione della Chiesa cattolica ed entrambi editi da Chorabooks. Tra le sue  opere più recenti sulla musica sacra ricordiamo Delle cinque piaghe del canto liturgico. Trattatello sulle deviazioni della musica in Chiesa.

A.M.V.

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Qualcuno ha detto recentemente che il luogo dove meglio si applica la dottrina sociale della Chiesa è la Cina. Questo ha suscitato un certo e giustificato sdegno e poche voci si sono levate a sostegno di questa affermazione. Probabilmente sarebbe lo stesso se ci si domandasse qual è il luogo dove la dottrina sociale della Chiesa è meno applicata: mi viene in mente una voce vaticana di anni fa che diceva che questo luogo è… la Chiesa stessa. Sarà vero? Non lo so, ma qui mi viene da guardare a questa cosa dalla prospettiva della vita dei musicisti di Chiesa, di coloro che contribuiscono alla solennità della liturgia in modo veramente importante e che per dare questo contributo devono necessariamente studiare per molti anni. Devono acquisire una tecnica e anche saperla dominare, come insegnava Giovanni Paolo II nel 1981 nella Laborem exercens: «Se le parole bibliche “soggiogate la terra”, rivolte all’uomo fin dall’inizio, vengono intese nel contesto dell’intera epoca moderna, industriale e post-industriale, allora indubbiamente esse racchiudono in sé anche un rapporto con la tecnica, con quel mondo di meccanismi e di macchine, che è il frutto del lavoro dell’intelletto umano e la conferma storica del dominio dell’uomo sulla natura». Questo dominio nel campo dell’arte e della musica si conquista a caro prezzo e spesso mai completamente. Ecco perché l’arte è bella per chi la gode, ma spesso è una croce per chi la fa. Molti artisti e musicisti hanno vissuto sulla propria pelle le contraddizioni di una vita sacrificata ad un ideale così alto, forse troppo. Ma non c’è dubbio che l’artista per vivere deve mangiare. Da questo non si scappa. Quindi, come ogni artigiano e operaio, ha diritto alla giusta mercede.

Leone XIII nella Rerum novarum, in polemica con la pretesa socialista, osservava: «E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione». Ora io già prevengo l’obiezione che dice: quando si fa una cosa per la Chiesa bisogna farla gratuitamente. Ma questa è un’affermazione mal posta e portata avanti da coloro che non vogliono riconoscere i diritti di chi lavora o che vogliono fare i buonisti sulla pelle degli altri, perché magari possono parlare dall’alto degli stipendi che (giustamente) percepiscono per altre attività lavorative al di fuori della Chiesa. I sagrestani non sono forse pagati? E coloro che portano i fiori in Chiesa? Gli stessi sacerdoti non vengono (giustamente) stipendiati? Eppure i musicisti no, i musicisti devono fare tutto gratis et amore Dei. Così la Chiesa si svuota di professionalità per riempirsi di un dilettantismo di basso livello (ci sono dilettanti anche di livello molto alto).

Tuto ciò accade anche perché a giudizio di molti l’attività creativa non sarebbe un lavoro vero e proprio, ma uno svago. Dunque perché pagare qualcuno che si diverte? Ma la fatica dell’artista può essere ben rappresentata da questa frase di James Joyce: «Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte». E questo «spremere dalla terra bruta» costa una fatica grande, specialmente quando si cerca di esprimere quello che in fondo è inesprimibile, la maestà di Dio. Se non vediamo il problema da questa prospettiva, compiamo un errore di metodo. Pretendiamo che l’attività creativa sia una sottospecie del nostro essere presenti nel mondo, quando invece ne è un aspetto fondante. Dovremo allora capire in che modo l’attività artistica e musicale è lavoro vero e proprio con sue caratteristiche specifiche.

Benedetto XVI nel corso di un’udienza del 2011 affermava: «Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto». Ecco, per aprire questa porta sull’infinito ci vuole molta forza, una forza che si conquista con decenni e decenni di dura pratica e studio, col mettersi alla scuola di una tradizione per attingerne gli insegnamenti perenni. Questo non viene gratuitamente e gratuitamente non va dato. Il musicista di Chiesa svolge un servizio per la comunità e se lo svolge bene ha diritto ad un giusto riconoscimento, un diritto che spesso viene bellamente negato.

Aurelio Porfiri

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