Sinodo amazzonico / Ed ecco a voi il cristianesimo biodegradabile

Cari amici di Duc in altum, proseguendo nell’analisi dell’Instrumentum laboris del prossimo sinodo amazzonico vi propongo oggi il contributo di dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’abbazia della Madonna della Scala di Noci, ben noto a voi lettori per i suoi precedenti interventi pubblicati nel blog.

Il documento preparatorio del sinodo, scrive dom Meiattini, contiene un radicale, profondo rovesciamento dell’idea stessa di Chiesa e di fede cristiana.

Dopo aver letto questo “inno al paradiso in terra dell’Amazzonia”, il nuovo Eden, non si capisce perché i suoi abitanti dovrebbero aver bisogno della fede cristiana. Al contrario, emerge che è la Chiesa che deve lasciarsi convertire da quei popoli.

Siamo oltre l’eresia. Siamo alla riduzione del cristianesimo ad antropologia, anzi a ecologia. Dunque siamo all’apostasia. E il tutto non per un improvviso strappo, ma in stretta connessione con quanto già si intravvedeva in Evangelii gaudium e Amoris laetitia.

Un po’ come i prodotti che recano il marchio UE ma sono fabbricati in Cina, il documento di lavoro è una contraffazione. Si presenta come cristiano, ma non lo è.

Né è da sottovalutare la connessione tra la grottesca pretesa di tornare al buon selvaggio, eterno fanciullino innocente, e l’ideologia omo e trans, fondata sull’idea dell’autodeterminazione spontaneistica.

A.M.V.

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Per un cristianesimo biodegradabile

Che l’annunciato sinodo sull’Amazzonia avrebbe riservato sorprese e creato altri motivi di divisione lo si sapeva o lo si immaginava da tempo. Sembrava, in un primo momento, che la questione forse più spinosa, che si sarebbe presentata per l’occasione, avrebbe riguardato il clero uxorato. Bisogna dire che la pubblicazione dell’Instrumentum laboris ha superato ampiamente le aspettative e la più fervida immaginazione. Il documento, in realtà, di dirige verso un obiettivo molto più ambizioso e radicale. Si tratta della mossa più audace che potesse essere pensata e tentata dalla segreteria di un sinodo della Chiesa cattolica. Il documento propone e contiene nulla di meno che un rovesciamento ab imis fundamentis della stessa idea di Chiesa e di fede cristiana.

Diluizione del cristianesimo: il vino trasformato in acqua

Dico “cristiana”, e non “cattolica”, a ragion veduta, perchè in effetti il metodo e i contenuti di questo testo, pieno di ripetizioni e abbastanza farraginoso, ormai hanno liquidato, di fatto, gli elementi fondamentali del cristianesimo. Naturalmente l’operazione viene condotta col solito sistema, che in altra circostanza ho segnalato: non negando, ma tacendo, non contraddicendo, ma diluendo. In modo che il lettore potrà essere colpito anche favorevolmente da tutte le riflessioni interessanti, di carattere ecologico, etnologico, igienico-sanitario, sociologico eccetera che vi sono contenute, e molte delle quali sono in se stesse anche giuste. Ma in mezzo a queste rigogliose e ridondanti analisi empiriche, che non dicono nulla di nuovo e che uno specialista potrebbe dire in modo migliore e più documentato, la persona di Cristo e il suo Vangelo scompaiono, letteralmente inghiottiti dalla lussureggiante foresta tropicale.

A illustrare il rapporto fra fede e culture dovrebbe essere la classica cristologia espressa dai primi concili ecumenici, che affermano la trascendenza della Persona divina del Verbo rispetto alla natura umana che essa sostiene, assume e trasforma, non viceversa. Ora, l’Instrumentum laboris esprime di fatto, nella sua logica generale, una concezione del tutto invertita e non più conforme all’ortodossia cristologica. Leggendo questo inno al paradiso in terra dell’Amazzonia (presentata come un nuovo Eden di innocenza e armonia comunitaria e cosmica senza macchie, se non quelle apportate dalla civiltà occidentale; cfr. n. 103), non si capisce come e perché questa concreta umanità abbia bisogno della fede nell’Incarnazione. Il mito del grande fiume amazzonico fonte di vita, prende il posto della grande immagine cristologica e pasquale del fiume che sgorga dal Tempio, secondo il profeta Ezechiele, e che “dovunque giunge risana”. Invece di interrogarsi su come portare l’annunzio del vangelo a quei popoli, su come l’acqua viva di Cristo possa risanare la vita di quelle popolazioni, si dà per scontato che esse vivano già, grazie alle loro tradizioni ancestrali, in una situazione edenica dalla quale, semmai, è la Chiesa che deve lasciarsi convertire. La Chiesa deve assumere “uno volto amazzonico”, si dice a più riprese, ma dal documento non si capisce se e come l’Amazzonia potrà o dovrà assumere un volto cristiano e se questo sia augurabile oppure no.

L’Instrumentum laboris esprime opinioni che a qualcuno potranno anche piacere, ma non è un documento cristiano. Questo sia detto con chiarezza. Non bastano alcune citazioni bibliche poste come titolo di qualche paragrafo o l’uso di parole come “Chiesa”, “conversione” e “pastorale” a garantire il carattere evangelico di un testo. Esse assomigliano a dei paraventi rassicuranti, ma la Parola del Dio vivente non costituisce la tessitura e l’ispirazione su cui si costruisce il documento. Basti pensare, a solo titolo esemplificativo, al capitolo I della Parte I, dedicato al tema della vita. Il titolo prende spunto da Gv 10,10: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Sembrerebbe un’ottima partenza. Ma in quanto segue non viene mai detto in che cosa consista questa vita che Gesù è venuto a portare, né che Giovanni parla di “vita eterna” e che questa vita è la stessa vita trinitaria donata dallo Spirito Santo. Per commentare il versetto giovanneo, il testo si accontenta di un’illustrazione della biodiversità amazzonica, della ricca idrografia del bacino del Rio delle Amazzoni e di un elogio del “buon vivere” del popolo indigeno, che – scoperta strepitosa – “significa comprendere la centralità del carattere relazionale-trascendente degli esseri umani e del creato, e presuppone il ‘fare bene’ ” (n. 13). Naturalmente non si capisce se la Croce di Cristo e la sua Risurrezione siano ancora necessarie per questo tipo di “buon vivere” presentato come modello. La Croce è citata solo due volte, e si capisce che non si riferisce mai a quella redentiva di Cristo, ma alla “storia di croce e di risurrezione” che consiste nella solidarietà della Chiesa con le lotte dei popoli indigeni nella difesa del territorio (nn. 33-34; 145).

La rimozione del principio scritturistico: apostasia, più che eresia

Il cardinale Brandmüller, in un suo commento circolato ampiamente, afferma senza mezzi termini che il documento è eretico. Difficile dargli torto. Però una cosa va notata, per comprendere meglio il genere di “eresia” di cui si tratta. La storia della Chiesa ci insegna che le eresie si sviluppano normalmente sulla base dell’interpretazione controversa dei testi scritturistici. L’eretico di turno ritiene sempre di dare un’interpretazione più corretta della Scrittura, la cui autorità egli non mette in dubbio. Per questo era a suon di citazioni bibliche che le controversie si alimentavano. In altri termini, da Ario fino a Lutero e oltre, il presupposto che univa, oltre ogni divisione, l’ortodossia e l’eresia, i cattolici e i non cattolici, è sempre stata l’autorità indiscussa della Sacra Scrittura, riconosciuta come parola ispirata, al cui vaglio doveva sottostare ogni insegnamento e ogni teologia.

Ma di questo presupposto scritturistico non c’è più traccia sensibile o rilevabile nell’Instrumentum laboris per il sinodo panamazzonico. Gli estensori del documento non si preoccupano minimamente di dare una plausibilità scritturistica e teologica a quanto dicono, per loro sembra che l’unico “luogo teologico” (terminologia venerabile risalente all’illustre Melchior Cano) sia il “territorio” o il “grido dei poveri”. Si legga: “Il territorio è un luogo teologico da cui si vive la fede ed è anche una fonte peculiare della rivelazione di Dio. Questi spazi sono luoghi epifanici dove si manifesta la riserva di vita e di saggezza per il pianeta, una vita e una saggezza che parlano di Dio” (n. 19; cfr. 144; 126e). Naturalmente non si dice da nessuna parte che la Scrittura e la Liturgia, all’interno della grande tradizione apostolica ed ecclesiale, per ordine d’importanza, sono i primi luoghi teologici dai quali tutti gli altri eventuali loci theologici minori devono essere verificati e neppure si fa ricorso ad esse come fonti primarie. Dei Verbum e Sacrosanctum concilium sono coperte dai rampicanti e dalle muffe tropicali, o sprofondati in qualche paludosa sabbia mobile.

Questo è un fenomeno che non deve sfuggire, perché è l’indicatore più importante che consente di cogliere la vera natura della deviazione o del “cambio di paradigma” che l’Instrumentum laboris introduce. In epoca moderna ci sono stati già illustri precedenti di una rimozione del principio scritturistico a favore del primato di altre istanze. La cosiddetta teologia liberale a partire dal secolo XIX, in ambito protestante, in fondo era un tentativo di giustificazione del cristianesimo (o delle sue reliquie culturali), davanti alle critiche molteplici della cultura moderna, riducendolo “entro i limiti della sola ragione” oppure a una forma particolarmente elevata di etica insuperata o riconducendolo a universale sentimento religioso. La fede e la Chiesa venivano ridotti alla loro universale comprensibilità, attraverso un processo di omologazione razionale. Le parole e i concetti chiave del cristianesimo restavano, ma il loro significato veniva del tutto secolarizzato.

Questa rimozione del principio scritturistico era la conseguenza del nuovo confronto che il cristianesimo si trovava a dover sostenere: non più con sue interne divisioni, ma con una razionalità emancipata dalla rivelazione, che poteva accettare solo ciò che rientrava nei suoi parametri.

Questa diluizione antropologica del cristianesimo a etica o ragione o sentimento religioso (di cui risentirà a suo modo anche la crisi modernista in casa cattolica), non considera più la Scrittura come luogo teologico. Sono le grandi “simboliche” cristiane (la Chiesa, il culto, la croce e la risurrezione, le norme morali eccetera), ormai estrapolate dal loro terreno di origine, ma ancora viventi per inerzia nella civiltà europea, a dover trovare una qualche giustificazione e rilettura. Un grande pensatore come Ernst Troeltsch, poteva così giungere a definire, su basi razionali, che la religione cristiana rappresentava la forma più alta della morale e della religiosità universale. Ma nient’altro che questo! I dogmi centrali diventavano così dei “miti” da superare in un “logos” universalmente accettabile. La demitologizzazione bultmaniana è stata una delle più celebri varianti di questa omologazione della fede a dimensione esistenziale facilmente digeribile.

È alla luce di questa storia, non ancora conclusa, che un fenomeno come quello dell’Instrumentum laboris sull’Amazzonia va considerato. Si tratta della diluizione del cristianesimo ad antropologia, anzi per la precisione a ecologia, per conferirgli ancora una parvenza di accettabilità nel consesso, adesso, delle Nazioni Unite e del pensiero ambientalista, post-moderno, anti-occidentale e naturalista biodegrabile. Per questo la diagnosi del cardinale Brandmüller è esatta, ma aggiungendo subito, come egli stesso fa, che più che di eresia bisognerebbe parlare di apostasia. La rimozione del principio scritturistico (che è come dire la rinuncia a fare teologia e missione), l’abdicazione a una lettura dei fenomeni e della missione della Chiesa alla luce della Parola di Dio, sostituendola col “luogo teologico” incontaminato e mitizzato dell’ambiente, del territorio e dei poveri (come se tutto questo fosse immune dal peccato originale, e dunque una “parola pura” di Dio che può fare a meno dei due testamenti), equivale all’abbandono del terreno della fede, la quale per Paolo e la Chiesa apostolica nasce dall’ascolto del kerygma e non dalla “conversione ecologica” al territorio (espressione ricorrente nove volte nel testo). La Chiesa apostolica, e quella successiva, ha trasmesso l’annuncio del Cristo Figlio di Dio morto e risorto per i peccati. Per questo è stata missionaria. Ma di questo annuncio nel nostro documento non c’è traccia. Qui dunque non ci troviamo davanti a una variante, sia pure eterodossa o eretica, del cristianesimo, ma a un fenomeno di abbandono della fede biblica per qualcosa di diverso, che di cristiano non ha che l’etichetta contraffatta. Un po’ come i prodotti che portano il marchio UE, ma che sono fabbricati in Cina.

Dirò di più. I grandi rappresentanti del liberalismo teologico, cui ho fatto cenno, almeno conservavano al cristianesimo una posizione di privilegio: esso restava per loro la più alta espressione dell’ethos umano o della religione dell’umanità. A loro modo “non potevano non dirsi cristiani”. Nella nuova riduzione mitica presentata dal documento pre-sinodale, avviene qualcosa di più radicale: questa posizione di privilegio viene meno. Sembra che la Chiesa abbia adesso l’unico compito di proteggere quanto di buono le popolazioni amazzoniche già posseggono. Scompare, dunque, anche quella visione a suo modo alta del cristianesimo come religione più evoluta o, se vogliamo, come uomo realizzato. Qui il problema de vera religione non ha più motivo di sussistere. Dunque anche la questione sul vero Dio che le religioni venerano. Infatti si può leggere: “L’apertura non sincera all’altro, un atteggiamento corporativo che riserva la salvezza esclusivamente al proprio credo, sono distruttivi di quello stesso credo” (n. 39). Come dire: credete quello che volete, siete salvi lo stesso. Avevamo già letto nel documento di Abu Dhabi qualcosa del genere. Evidentemente non era stato un lapsus!

Il fenomeno culturale: una regressione infantile

Appurato questo, c’è un altro fatto da notare, altrettanto importante e di considerevoli proporzioni, riguardante l’operazione culturale qui in atto (visto che ormai di sola cultura possiamo occuparci, e non più di teologia cristiana). La cosa interessante è che ad essere privilegiato, nell’Instrumentum laboris, non è più il logos adulto che rischiarava e dissolveva il mythos delle epoche infantili e primitive dell’umanità, compreso il “mito” giudaico-cristiano, come avveniva nella lettura della teologia liberale e in tutte le riduzioni illuministiche o positivistiche del cristianesimo, di marca kantiana, lessinghiana, hegeliana, bultmaniana e via dicendo. Adesso, il fascino dell’età adulta emancipata, come “età della ragione”, che ha fatto da guida a gran parte della modernità, per il mondo occidentalizzato si è dissolto, ha perso il suo appeal. Al suo posto si è insediato di nuovo proprio il tanto disprezzato mythos,  il mondo del primitivo, insomma l’infanzia dell’umanità, il buon selvaggio con la sua saggezza ancestrale animistica (che il triste homo technologicus gli invidia, ma senza conoscerla veramente). Dopo aver criticato ed eliminato il “mito”, anche quello biblico, come residuo dell’epoca infantile dell’umanità, e desacralizzato di conseguenza le pratiche rituali della Chiesa (accusate di mentalità magica e superstiziosa), adesso si tenta di rimpiazzare il vuoto prodotto (altro che deforestazione!) ricorrendo ai miti e ai rituali sciamanici dell’indigeno amazzonico, a un repertorio precristiano, perché diventino il nuovo paradigma entro cui annacquare il vino sincero della singolarità del Cristo.

Non si può non notare che dal punto di vista psico-culturale questo è un classico fenomeno di regressione infantile post-moderna tipica del mondo occidentale, che ormai non aspira più all’età adulta di illuministica o positivistica memoria. Troppo impegnativo o troppo noioso essere adulti. Basta con la ragione pura e assoluta, basta con la fatica del concetto; meglio essere spensierati e istintivi come i bambini, semplici e spontanei come loro. Non l’età della ragione, ma del sogno e del gioco. Peccato che questa aspirazione infantile camuffi, dietro l’incantevole innocenza del puer, il più profondo nichilismo. Si ricordi che il superuomo nietzschano, che decreta la fine del logos, ha esattamente le sembianze del bambino, innocente nel suo giocare, al di là del bene e del male, con la ruota dell’eterno ritorno. Il bambino di cui si parla in Così parlò Zarathustra, per chi non lo sapesse, è Dioniso, “Dioniso contro il Crocifisso”! Il mito pagano al posto del Dio cristiano. Ciò che è infantile oggi affascina, perché impersona un’istintività innocente e irresponsabile che l’adulto non può permettersi.

Non sembri eccessiva simile diagnosi. Si noti piuttosto la strana attrazione, fatale, fra l’occidentale dalla cattiva coscienza decadente, deluso dall’agognata età adulta emancipata (che si è presto trasformata in vecchiaia non desiderata) e l’infanzia perduta, la terra dell’oro, che non si riesce a trovare se non nella culture tribali pre-civilizzate, visto che abbiamo rubato l’infanzia anche ai nostri tecno-bambini. La mitizzazione dell’incontaminato, il naturalismo neopagano dell’innocenza infantile degli indigeni è una regressione tutta occidentale e post-moderna. Dove trovare salvezza dall’ipertecnologizzazione, quale via di uscita da un’urbanizzazione sempre meno gestibile, come risanare le ferite di relazioni sempre più frammentate? Dopo i tentativi dei figli dei fiori, ecco la proposta del modello culturale ecologicamente più sostenibile e meno nevrotico possibile: la vita riportata ai suoi albori, all’arco e alle frecce, ai riti sciamanici di guarigione. Un nuovo inizio! Oggi tutti vogliono avere un nuovo inizio, un’altra possibilità, come si dice. L’altra possibilità per l’uomo occidentalizzato è rivolgersi a chi è restato per millenni agli inizi. Questo è il nuovo mito presentato dall’Instrumentum laboris, ottimo esempio di questa regressione infantile post-moderna, un vero e proprio complesso o sindrome di matrice europea, anche se si ammanta di amore alle periferie e di anti-occidentalismo. Come tutte le regressioni, anche questa non è del tutto consapevole di se stessa, altrimenti si vergognerebbe. Invece viene squadernata con una ingenuità impressionante, pensando di fare opera profetica. Ma la profezia, solitamente, è “inattuale”. Mentre queste noiose pagine dell’Instrumentum laboris sono un frullato di cose scontate, adatto, appunto, per bambini (o forse per vecchi senza denti tornati a balbettare).

Non c’è bisogno, penso, di troppe esplicitazioni, per comprendere che questa aspirazione alla neotenia infantile, cifra dell’indistinzione potenzialmente aperta a ogni possibilità di “autodeterminazione” totipotente (per questo rappresentativa della nietzschiana volontà di potenza), va magnificamente d’accordo con una cultura omologante che cerca di promuovere il ritardo della differenziazione sessuale (fase necessaria per l’accesso all’età adulta), mantenendo nell’indeterminazione prepuberale. L’ideologia omo- e trans- ha a che fare con questa segreta nostalgia degli inizi fusionali che legano alla madre, da cui il mondo occidentale post-moderno a-logico e a-nomico avverte istintivamente il bisogno. Che ora si chiami “Madre Terra” (altra espressione ben ricevuta nell’Instrumentum laboris, con ben sei ricorrenze, a fronte di una sola dell’attributo paterno a Dio) e Madre Natura, poco importa.

Purtroppo, però, l’Amazzonia descritta dal documento pre-sinodale non è reale, se non in parte: è una costruzione dell’immaginario occidentale alla ricerca di miti sostitutivi e a sua misura, dopo aver liquidato i propri, in specie la narrazione cristiana. Nel cantare le meraviglie del territorio amazzonico, il documento denota un’ingenuità senza fine. Gli estensori avrebbero dovuto rileggersi almeno qualche pagina di Leopardi sulla Natura matrigna, per non lasciarsi sedurre in modo così plateale dalle sirene roussouiane.

Conclusioni: un cristianesimo biodegradabile

Le obiezioni che a suo tempo ho mosso ai postulati di Evangelii gaudium (specialmente al primo: la superiorità del tempo sullo spazio) denotavano la debolezza teorica di quel programma pastorale, che già mostrava una certa tendenza a rimuovere il ruolo del logos (anche scritturistico) a favore della realtà (considerata superiore all’idea), rinunciando in buona sostanza alla mediazione della teologia in nome dell’immediatezza della prassi (avviare processi). La mia critica ad Amoris laetitia si concentrava nel mettere in evidenza la riduzione dello specifico cristiano (condensato nella vita sacramentale) a morale universale, coerentemente con le correnti del liberalismo teologico prima segnalate.

Mi sembra che l’Instrumentum laboris del prossimo sinodo sull’Amazzonia rappresenti una coerente maturazione di queste premesse. Alla riduzione dei sacramenti a morale, subentra adesso l’esaltazione del “buon vivere” indigeno (morale naturistica, più che naturale), la scelta del popolo come “categoria mitica” e dei miti dei popoli in luogo della narrazione biblica. Soprattutto la preferenza data all’ambiente (territorio-spazio) sulla storia (tempo). Anche perché le popolazioni indigene non hanno storia e vivono un tempo ciclico oppure (in qualche caso) sono prive del concetto di tempo. Eppure ci avevano detto il contrario!

L’aspetto più interessante è che in questo documento le cose si fanno più chiare, rispetto alle formulazioni ambigue precedenti, puntellate con citazioni sbagliate di San Tommaso per poter dire che tutto era “completamente tomista”. È evidente che qui San Tommaso non c’entra per nulla e, come si è detto, non c’entra neppure la Bibbia. Se qualcosa di cristiano c’è ancora in questo Instrumentum laboris, cioè qualche parola ed espressione qua e là, non c’è da preoccuparsi: è senza dubbio biodegradabile!

Dom Giulio Meiattini, OSB

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