Custodiamo il bene prezioso che ci è stato affidato!
Cari amici di Duc in altum, vi propongo una riflessione di don Alberto Strumia nella quale, a partire dalle letture che la liturgia ci ha proposto domenica scorsa, possiamo trovare numerosi spunti che ci aiutano a vivere con maggiore consapevolezza, e anche maggiore fiducia, il tempo difficile nel quale ci troviamo.
A.M.V.
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Domenica XXVII del Tempo Ordinario (Anno C)
(Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10)
La prima lettura della liturgia di domenica scorsa, 6 ottobre, sembra scritta proprio per noi, per il nostro tempo, per questi nostri giorni. È una delle caratteristiche proprie della sacra Scrittura quella di contenere verità che “leggono la storia” in ogni epoca dell’esistenza dell’umanità. E si può dire che questa è una “prova indiretta” dell’“ispirazione” dei suoi autori da parte dello Spirito Santo.
Anche noi, infatti, come il profeta Abacuc – di fronte a un mondo divenuto sempre più difficile da vivere, a una Chiesa la cui posizioni stanno progressivamente “allontanando da se stessa”, allontanandola di conseguenza da Cristo e dalla Sua dottrina – siamo indotti, istintivamente, a “protestare” con il Signore perché lascia fare tutto questo: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese».
E dobbiamo compiere seriamente un “atto di fede” per riuscire ad aspettare ancora («fino a quando»), senza “saltare psichicamente” e compiere scelte insensate, come già accade ad alcuni. C’è chi preferisce far finta di niente continuando a vivere nell’“area protetta” della quale ancora può disporre (nella società come nella Chiesa). Altri si sono adeguati e sono perfino collaboranti con il dissesto sociale ed ecclesiale, convinti che sia un progresso. Altri sono stati resi talmente ottusi nella ragione e nella fede da non percepire neppure il minimo disagio, vivendo come se tutto fosse rimasto uguale a sempre, indifferenti a tutto. Così che è divenuto pressoché impossibile parlare con qualcuno della sofferenza che si ha dentro. Il “profeta” Abacuc, come ogni “profeta”, dovette portare dentro questa sofferenza. Anche noi, che come battezzati, abbiamo ricevuto con il carattere sacramentale, l’essere, in qualche modo “profeti”, oltre che “sacerdoti” (sacerdozio comune dei fedeli, che per coloro che hanno ricevuto anche il Sacramento dell’Ordine è divenuto anche sacerdozio ministeriale) e “re” (padroni, anche per grazia oltre che per natura, per lo meno di noi stessi oltre che corresponsabili del destino delle persone che ci sono affidate). E come “profeti” ci accorgiamo, in anticipo sulla maggioranza degli altri, della decomposizione che sta avvenendo nel nostro mondo e nella Chiesa.
Ce la stiamo mettendo tutta – certo con i nostri limiti e con i nostri peccati che non manchiamo di confessare con la regolare frequentazione del Sacramento della Penitenza che ci dà la grazia per resistere – ma sappiamo che ogni nostro intervento e impegno non può essere sufficiente. Deve intervenire direttamente il Signore: ed è questo Suo intervento diretto che aspettiamo.
E così, e passiamo al Vangelo, facciamo l’esperienza, alla fine della giornata e della vita, del sentirci “inutili”: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare», ma non basta. Per un essere umano il “sentirsi inutile” è la cosa più tremenda che ci possa essere, perché coincide con l’esperienza del fallimento della vita. Se non sei “utile” a qualcuno, lui non ha nessun motivo per esserti grato, nessun motivo per volerti bene. E ti senti, allora, come uno che non ha nessun motivo per avere il “diritto di esistere”. Questa logica può portare alla depressione, poi addirittura al suicidio e da vecchi (ma non solo) all’eutanasia, soprattutto quando è la sofferenza fisica e morale ad essere vissuta come “inutile”. Oggi tutto questo è ormai legalizzato dagli Stati, come un normale “diritto” di chi non ha una “risposta di senso” adeguata.
Abbiamo fatto il nostro dovere, nella società e nella Chiesa («Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»), ma questo non basta. Dunque, il nostro dire «siamo servi inutili» non è un atto di falsa umiltà, come spesso lo si è moralisticamente e non correttamente inteso, ma la constatazione di un dato di fatto, esistenzialmente sperimentato.
A questo punto si inserisce l’intervento diretto del Signore, tanto atteso.
Nella prima lettura Dio fa capire («scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette») al profeta e a quanti saranno aiutati a intendere («perché la si legga speditamente»), che Lui interviene “direttamente” nella storia, nel “momento” esatto («un termine, […] una scadenza, […] certo verrà e non tarderà») in cui c’è bisogno e che Lui sa. Si tratta solo, anche se costa sacrificio e fatica, di stare ai suoi tempi che sono più adeguati dei nostri, perché Lui ha una visione totale della realtà, mentre noi ne abbiamo solo una parziale e dobbiamo tenerne conto («se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà». E ancora: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede»).
Nel Vangelo Gesù insegna ai suoi discepoli, di allora come di ogni tempo, fino ad oggi, che cos’è la “fede” in prospettiva cristiana, la fede in Lui, come Dio, dicendo: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe». Un’esagerazione! Perché è una cosa impossibile. Sì, umanamente è impossibile, ma non per Lui che è Dio. Chi ha questa fede che sposta le montagne non fa conto sulle proprie forze umane, ma sul fatto che alla nostra libertà è stato dato il potere di chiedere a Lui di agire direttamente e Lui si lascia “mettere al nostro servizio”. I santi hanno compiuto i miracoli non per una capacità “magica” proveniente dalla loro natura umana, ma perché hanno avuto fede nel fatto che il Signore agisse direttamente tramite loro. Il “modello” di questo modo di intervenire direttamente del Signore è l’Eucaristia. Le parole del sacerdote consacrante non sono nulla dal punto di vista delle sue capacità umane: egli ci mette solo la libera volontà di pronunciarle in un momento piuttosto che in un altro. E il Signore, mettendosi in qualche modo “al servizio dell’uomo sacerdote” agisce direttamente Lui, rendendosi realmente presente mediante la transustanziazione del pane e del vino.
Colui che ha fede in Cristo, Figlio di Dio, si trova istantaneamente in una situazione capovolta rispetto a quella puramente umana di chi non ha questa fede: vive il passaggio, l’essere trasformato da “servo inutile” («Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare») a invitato ad una tavola nella quale viene servito dal padrone di casa («beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli», Lc 12,37), piuttosto che essere il servitore, come umanamente si sarebbe dovuto aspettare («chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”?»). Questa è la Redenzione operata da Cristo. Oggi è la manifestazione esplicita, definitiva, di questo suo intervento nella storia che la fede ci invita ad attendere («non mente; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà»).
A questo scopo, a sostegno della fede nel compiersi presto dell’intervento diretto del Signore nella storia, per fare pulizia nella Chiesa e nel mondo, di tutti gli errori seminati dal demonio e dai suoi collaboratori, san Paolo, nella seconda lettura , ci raccomanda: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te», e in particolare per i ministri ordinati aggiunge: «Mediante l’imposizione delle mie mani». E per i più pavidi, e oggi ce ne sono fin troppi, soprattutto tra i pastori: «Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro». E agli smaniosi di adeguarsi alle ideologie del mondo che non salvano, ma danneggiano l’umanità e la Chiesa, dice: «Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù. Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato», invece di fare di tutto pur di rifiutare la vera dottrina della Chiesa e distruggere la Tradizione, il deposito della fede.
In questo mese di ottobre, dedicato in modo particolare alla Vergine Maria, affidiamo noi stessi, la nostra terra e la Chiesa intera, alla sua protezione, chiedendole di manifestare al più presto il trionfo promesso del suo cuore immacolato e al Signore di intervenire direttamente nella storia umana e nella Sua Chiesa.
Beata Vergine del Rosario, intercedi per noi!
Don Alberto Strumia