La buona battaglia del soldato Ratzinger. L’ultimo papa d’Occidente

Mentre in Germania esce il libro di Peter Seewald Benedikt XVI. Ein Leben (Benedetto XVI. Una vita) nel quale c’è un’intervista al papa emerito che sta facendo molto discutere, in Italia l’editore Liberilibri di Macerata propone L’ultimo papa d’Occidente? di Giulio Meotti (pagine 116, 14 euro), opera completamente diversa da quella di Seewald, ma non meno importante per decifrare Joseph Ratzinger e cogliere la portata del suo pontificato.

Nell’intervista a Seewald, secondo le anticipazioni, Benedetto XVI parla del matrimonio omosessuale e dell’aborto come di realtà rese possibili dal potere spirituale dell’Anticristo, e ovviamente la maggior parte dei commenti si è concentrata su queste espressioni forti.

“Cento anni fa – argomenta il papa emerito – tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale” mentre oggi, al contrario, “se uno si oppone” a tutto questo, “viene punito dalla società con la scomunica”. Idem per quanto riguarda “l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio”.

Nel colloquio con Seewald il papa emerito tocca anche il tema dei lupi che lo hanno azzannato nel corso del suo pontificato e dice che “la vera minaccia per la Chiesa e quindi per il ministero petrino” non sta tanto negli scandali interni e nelle manovre della curia romana, “bensì nella dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo”.

In queste parole c’è l’eco di quelle che l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nella Missa pro eligendo romano pontifice alla vigilia del conclave del 2005, quando disse: “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Nichilismo e relativismo, molto accorti nell’identificare il pericolo, misero Ratzinger nel mirino. Di qui il dramma del suo pontificato, tutto giocato a difesa della vera fede e della vera Chiesa ma sempre sotto l’attacco di lupi famelici (esterni e interni alla Chiesa) intenti a distorcere, screditare, delegittimare.

Di questo dramma del Ratzinger teologo e papa si occupa appunto il libro di Giulio Meotti, ben più piccolo nel formato rispetto al volumone (1184 pagine) di Seewald, ma denso di contenuti. Un excursus nel pensiero ratzingeriano per mostrarne il filo conduttore: un confronto serrato con la modernità, senza esclusione di colpi.

Sottolineare che la Verità esiste ed è indagabile alla luce della ragione umana, dimostrare che le fedi non sono tutte uguali, mettere in luce le radici cristiane dell’Occidente, denunciare il processo di auto-dissolvimento della nostra civiltà: questa, in sintesi, la missione che Ratzinger mise al centro del suo pontificato. Che è come dire andare incontro al disastro, considerata la barbarie dominante. Ma il papa bavarese, gentile e timido, decise di immolarsi. Un martirio in senso letterale, ricordando che martire viene dal greco μάρτυς, mártus, ovvero testimone.

Stando così le cose, era fatale che Benedetto XVI (significativa la scelta del nome: san Benedetto, il patriarca del monachesimo occidentale) venisse attaccato, e sconfitto, dai nuovi barbari. Ma la sconfitta attribuisce una dignità e, direi, una solennità ancora maggiore alla sua testimonianza da martire della vera fede.

Difendendo la fede e la Chiesa, Benedetto XVI ha difeso il nostro pensiero, ci ha ricordato chi siamo e da dove veniamo, ci ha mostrato la bellezza e la ricchezza della nostra tradizione culturale e spirituale, ci ha invitati a considerare l’insensatezza della volontà di suicidio da cui l’Occidente è attanagliato. Ma noi non potevamo capire. Ormai in preda alla barbarie, abbiamo scherzato sul papa “pastore tedesco”, lo abbiamo insolentito con la nostra rozzezza intellettuale, lo abbiamo accusato di non sapere leggere i “segni dei tempi”, lo abbiamo perfino censurato. Quando c’è un confronto tra sapienza e ignoranza, tra gentilezza e arroganza, tra acutezza e grossolanità, si sa come va a finire: la muta di cani urlanti vince sul fine pensatore. Almeno in termini umani.

L’immediata vigilia del conclave del 2005 fu segnata, oltre che dall’omelia citata poco fa, dalla memorabile conferenza che Ratzinger tenne a Subiaco, al monastero di Santa Scolastica, quando gli fu consegnato il Premio San Benedetto per la promozione della vita e della famiglia in Europa.  Intitolata L’Europa nella crisi delle culture, quella conferenza fu un inno alle nostre radici cristiane e denunciò, come sempre con la massima libertà intellettuale, il nuovo “moralismo” – così lo definì Ratzinger – “le cui parole chiave sono giustizia, pace, conservazione del creato”, parole-talismano che però non dicono nulla e servono solo per essere accettati al gran ballo delle idee correnti. “Che cosa significa giustizia? Chi la definisce? Che cosa serve alla pace?”. Queste le domande che pose Ratzinger, con la delicata schiettezza tipica dell’uomo di studio che non conosce convenienze politiche e di comodo. E viene quasi da piangere pensando che proprio questo moralismo domina oggi la scena nell’ambito cattolico. Per essere ammessi al gran ballo, abbiamo venduto l’anima, o per lo meno quel poco di anima che avevamo.

Poi, quando divenne papa, Ratzinger punteggiò il suo pontificato con altre lezioni che andrebbero rilette e rimeditate continuamente, come il discorso al Collège des Bernardins di Parigi, come la lectio magistralis su Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, tenuta all’Università di Ratisbona durante il viaggio nella sua Baviera, come le parole rivolte alle autorità civili nella Westminster Hall, come il discorso che scrisse ma non poté mai pronunciare all’Università La Sapienza di Roma, dove un manipolo di facinorosi impedì l’ingresso del papa in un ateneo fondato proprio da un pontefice.

Per chi, come il sottoscritto, seguì passo passo, da cronista, il pontificato di Benedetto XVI, quegli anni furono un’avventura intellettuale e spirituale senza pari, un tuffo nelle acque cristalline dell’intelligenza cristiana. Ma furono anche anni di pena, perché dietro e accanto a ogni parola e a ogni iniziativa del papa c’era sempre in agguato una becera contestazione, un attentato alla logica, un pretesto per scatenare la polemica, un’insidia esterna o interna. Lo si vide bene nel caso di Ratisbona, quando le riflessioni del papa su fede e ragione furono usate per aizzare il conflitto con l’Islam.

“Si ha l’impressione generale che negli ultimi quattro secoli la storia del cristianesimo sia stata una continua battaglia di ripiegamento”, scrisse Ratzinger, come opportunamente ricorda Meotti, nel libro Riflessioni sulla creazione e il peccato. Ebbene, il soldato Ratzinger, pur consapevole che nei confronti della modernità montante c’era solo da arretrare, neppure per un giorno smise di combattere. Salvo poi farsi da parte. Perché?

Qualcuno dice che la risposta sta nel tratto caratteriale di Joseph Ratzinger.

Fece così nel 1969, quando lasciò la caotica Tubinga in preda alla contestazione studentesca e se ne andò nella più tranquilla Ratisbona. Fece così nel 1974, quando, senza dire una parola, abbandonò il Sinodo di Würzburg orientato in senso filo-protestante. E lo ha rifatto nel 2013, quando ha rinunciato al pontificato attivo. Non si tratta, spiega Seewald, di fughe, ma di decisioni razionali, presa ogni volta che Ratzinger si rende conto che non c’è altro da fare per non diventare cooperatore del Male. E non dimentichiamo che Cooperatores veritatis è in effetti il motto di Benedetto XVI, inserito nello stemma del papa.

Scrive Meotti: “Tutto il pontificato di Ratzinger è stato una difesa della civiltà occidentale o, più semplicemente, dell’Occidente. Ma non c’è una sola sfida da cui Ratzinger sia uscito apparentemente vincente”. È vero. Nichilismo e relativismo hanno vinto.  E vengono alla mente le parole del Vangelo di Giovanni: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”.

In fondo, siamo stati avvertiti.

Aldo Maria Valli

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