X

Contrordine: l’abito fa il monaco

di Aurelio Porfiri

Ho seguito recentemente il video di un dibattito fra uno studioso della Bibbia non confessionale, un rabbino, un vescovo ortodosso, un biblista protestante e un prete cattolico. Il rabbino aveva lo zucchetto, il vescovo era con l’abito ecclesiastico appropriato per la sua dignità, lo studioso protestante aveva giacca e cravatta mentre il sacerdote cattolico sembrava vestito per andare a ritirare la pensione. Purtroppo, abbiamo troppo creduto al detto secondo cui l’abito non fa il monaco, che contiene una parte della verità ma non tutta. È vero che potresti non essere migliore per il solo fatto di indossare un abito appropriato, ma certamente se lo indossi fai migliori gli altri, edificandoli con la dignità della tua figura. La forma in-forma, quantomeno.

Diceva bene Ugo di San Vittore: “Omnia visibilia quaecumque nobis visibiliter erudiendo symbolice, id est figurative tradita, sunt proposita ad invisibilium significationem et declarationem […] Quia enim in formis rerum visibilium pulchritudo earum consistit […] visibilis pulchritudo invisibilis pulchritudinis imago est” [Tutti gli oggetti visibili ci sono proposti per la significazione e dichiarazione delle cose invisibili, istruendoci, attraverso la vista in modo simbolico, cioè figurativo […] Poiché infatti la bellezza delle cose visibili consiste nella loro forma […] la bellezza visibile è immagine della bellezza invisibile.] (Hierarchiam coelestem expositio, PL 175, coll. 954 e 978 in U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale). Non bisogna disprezzare la forma.

Fin dai tempi veterotestamentari i sacerdoti indossavano abiti appropriati (vedi la voce “Vestiario” di H. Bardtke in Enciclopedia della Bibbia). I sacerdoti della Mesopotamia indossavano un berretto a forma di fez da cui sarebbe derivato il conico berretto sacerdotale. Anche nelle rappresentazioni egiziane i sacerdoti indossano un grembiule corto. Dalla Bibbia conosciamo l’uso dell’ephod, che alcuni traducono come “stola”. Lo stesso Signore ordina abiti solenni per i sacerdoti (Es 32, 1-8): “Tu fa avvicinare a te tra gli Israeliti, Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui, perché siano miei sacerdoti; Aronne e Nadab, Abiu, Eleazaro, Itamar, figli di Aronne. Farai per Aronne, tuo fratello, abiti sacri, che esprimano gloria e maestà. Tu parlerai a tutti gli artigiani più esperti, ai quali io ho dato uno spirito di saggezza, ed essi faranno gli abiti di Aronne per la sua consacrazione e per l’esercizio del sacerdozio in mio onore. Ed ecco gli abiti che faranno: il pettorale e l’efod, il manto, la tunica damascata, il turbante e la cintura. Faranno vesti sacre per Aronne tuo fratello e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in mio onore. Essi dovranno usare oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso. Faranno l’efod con oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto, artisticamente lavorati. Avrà due spalline attaccate alle due estremità e in tal modo formerà un pezzo ben unito. La cintura per fissarlo e che sta sopra di esso sarà della stessa fattura e sarà d’un sol pezzo: sarà intessuta d’oro, di porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto”. Mi sembra un’indicazione ben chiara e anche molto dettagliata. Sembra che gli abiti sacerdotali fossero legati “agli indumenti della divinità” (H. Bardtke). Abbiamo riferimenti del genere in più luoghi della Bibbia. Quindi l’abito del sacerdote, specie in occasione delle cerimonie, era di grande solennità. Ovviamente tutto questo passa nella Chiesa cristiana almeno fin dal terzo secolo (vedi le voci “Vesti liturgiche” e “Abito corale” di Robert Lesage in Dizionario pratico di liturgia romana).

In quel tempo di formazione della Chiesa, che nel quarto secolo potrà esercitare liberamente il proprio ministero, i sacerdoti tendono a distinguersi dai laici nella liturgia ma anche nella vita civile. In realtà è notabile l’ironia del Lesage che constata come al suo tempo, nel secolo passato, ci fossero chierichetti o pueri chorales che per la ricchezza dell’apparato delle vesti somigliavano quasi a papi e cardinali! Insomma, l’abuso ci informa però sull’uso. E questa esigenza non è mai stata revocata anche ai nostri giorni, come ci fa sapere una lettera di san Giovanni Paolo II al suo cardinale vicario per la diocesi di Roma Ugo Poletti proprio su questo tema, nel 1982: “La cura dell’amata diocesi di Roma pone al mio animo numerosi problemi, tra i quali appare meritevole di considerazione, per le conseguenze pastorali da esso derivanti, quello relativo alla disciplina dell’abito ecclesiastico. Più volte negli incontri con i sacerdoti ho espresso il mio pensiero al riguardo, rilevando il valore e il significato di tale segno distintivo, non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell’esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio. E poiché questo segno esprime concretamente il nostro ‘non essere del mondo’ (cf. Gv 17,14), nella preghiera composta per il Giovedì Santo di quest’anno, alludendo all’abito ecclesiastico, mi rivolgevo al Signore con questa invocazione: ‘Fa’ che non rattristiamo il tuo Spirito… con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno’ (Giovanni Paolo II, Precatio feria V in cena Domini anno MCMLXXXII recurrente, universis Ecclesiae sacerdotibus destinata, 4, die 25 mar. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1064). Inviati da Cristo per l’annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L’abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall’ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L’abito, pertanto, giova ai fini dell’evangelizzazione e induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell’esistenza dell’uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare. Non ignoro le motivazioni di ordine storico, ambientale, psicologico e sociale, che possono essere proposte in contrario. Potrei tuttavia dire che motivazioni di eguale natura esistono in suo favore. Devo però soprattutto rilevare che ragioni o pretesti contrari, confrontati oggettivamente e serenamente col senso religioso e con le attese della maggior parte del Popolo di Dio, e con il frutto positivo della coraggiosa testimonianza anche dell’abito, appaiono molto più di carattere puramente umano che ecclesiologico. Nella moderna città secolare dove si è così paurosamente affievolito il senso del sacro, la gente ha bisogno anche di questi richiami a Dio, che non possono essere trascurati senza un certo impoverimento del nostro servizio sacerdotale”.

Mi sembra che le parole del papa polacco dicano molto chiaramente la profonda necessità della cura degli abiti sacerdotali anche nella vita profana, non solo per quello che riguarda le vesti liturgiche, sulle quali naturalmente c’è anche tanto da dire. Il sacerdote non fa un lavoro, è sacerdote per sempre. Un medico finisce il suo turno in ospedale e non necessita di indossare gli abiti da medico nella vita civile, ma un sacerdote è un segno di quella Presenza che non si dona se non tramite la sua mediazione nella liturgia. Proprio per questo suo ruolo tremendo, il sacerdote non può mai uscire dal suo ruolo e deve sempre rappresentarlo per coloro che gli capita di incontrare. Molti sacerdoti si vestono come i laici per essere come noi, ma noi laici abbiamo bisogno che il sacerdote ci aiuti a essere come Lui! Cari sacerdoti, non ci aiutate cercando di camuffarvi da coloro che in realtà aspettano il vostro aiuto per progredire nella vita spirituale.

* * * * *
Cari amici di Duc in altum, è disponibile il mio nuovo libro: La trave e la pagliuzza. Essere cattolici “hic et nunc” (Chorabooks).
Uno sguardo sulla situazione della Chiesa cattolica e della fede. Senza evitare gli aspetti più controversi e tenendo conto dell’orizzonte dei nostri giorni, segnato dalla vicenda del Covid. Un diario di viaggio in una realtà caratterizzata da profonde divisioni, ma con la volontà di costruire, non di distruggere. E sapendo che il processo di conversione riguarda tutti, a partire da se stessi.
Il volume prende in esame questioni disparate (dal Concilio Vaticano II al pontificato di Francesco, dalla vita spirituale in regime di lockdown alle vicende vaticane, dal great reset alle questioni bioetiche) ma con un filo conduttore: l’amore per la Chiesa e la Tradizione, unito a una denuncia chiara sia delle derive moderniste sia delle nuove forme di dispotismo che limitano o negano le libertà fondamentali.
* * * * *
Sei un lettore di Duc in altum? Ti piace questo blog? Pensi che sia utile? Se vuoi sostenerlo, puoi fare una donazione utilizzando questo IBAN:
IT65V0200805261000400192457
BIC/SWIFT  UNCRITM1B80
Beneficiario: Aldo Maria Valli
Causale: donazione volontaria per blog Duc in altum
Grazie!
Aldo Maria Valli:
Post Correlati